CARLO BOCCADORO, ANALFABETI SONORI – EINAUDI, TORINO 2019
Leggendo il pamphlet che il compositore e musicologo Carlo Boccadoro ha dedicato alla ricezione contemporanea della musica, mi sono tornate alla mente alcune riflessioni del grande critico letterario George Steiner, che riteneva il linguaggio musicale non umano, addirittura aldilà dell’umano perché alieno da verità e menzogna, e quindi estraneo all’asse della moralità: “La musica può governare la psiche umana con una forza di penetrazione forse paragonabile soltanto a quella dei narcotici o della trance di cui parlano gli sciamani, i santi e i visionari… ci può far impazzire e può curare la mente ferita… essa si collega all’internet dei nostri recettori in una chimica sottilissima eppure imperiosa”.
In Analfabeti sonori Boccadoro si occupa appunto di questo: quanto la qualità originale di un evento musicale viene rispettata e preservata nell’attuale trasmissione informatica, spasmodica, vastissima, incontrollata, pervadente? All’utente di Spotify viene garantita una fruizione intelligente, meditata, consapevole di ciò che ascolta? E al compositore di adesso, cui si offrono opportunità esplorative prima inesistenti, è assicurata la capacità di mantenere una creatività genuina, non contaminata?
Partendo da premesse generali sui dati sconfortanti che riguardano la promozione e la diffusione della musica classica ‒ in particolare di quella contemporanea ‒, l’autore constata quanto poco spazio le venga riservato dai media, scarsamente propensi a educare e informare il pubblico (brevi righe sono state dedicate dalla stampa alla morte di Pierre Boulez o di Miles Davis, rispetto ai fiumi d’inchiostro versati sulla scomparsa di icone del pop). La musica colta è considerata “un reperto sopravvissuto a un passato certamente illustre ma ormai costoso e inutile”, priva di futuro perché difficile da capire, male insegnata nelle scuole, poco sfruttata come evento culturale, nonostante si realizzino oggi molti nuovi lavori operistici, sinfonici e da camera di alto livello. Il repertorio attuale è ignorato per la diffidenza di sovrintendenti e direttori artistici che ambiscono soprattutto a riempire i teatri, ma anche per la scarsa iniziativa, la pigrizia mentale e il sospetto di direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti, i quali temendo fischi e contestazioni non si azzardano a proporre o a riproporre opere ritenute troppo innovative e di difficile collocazione.
Tanti sono i pregiudizi che precludono alla musica classica contemporanea l‘accesso alle sale di concerto: il primo è ovviamente quello della sua complessità, che ridurrebbe il suo bacino d’utenza (ma anche gli spartiti di Mozart o di Beethoven erano strutturati con estrema perizia formale, e non sono tuttora di semplice esecuzione!). Poi l’idea che la musica debba solo intrattenere, divertire, emozionare o consolare, mentre dissonanze e incomprensibili stravaganze finirebbero per urtare e irritare chi ascolta (tuttavia, il compito di chi scrive musica non è quello di rassicurare, bensì di porre interrogativi). Infine, che la musica d’avanguardia non si impegni ad avvicinare un pubblico più vasto, mentre è risaputo che numerosi compositori stanno azzardando nuove contaminazioni con il jazz e il rock, i generi popolari e minimalisti, le realizzazioni al computer o le suggestioni del mondo teatrale.
In realtà “per alcuni esecutori è molto più comodo adagiarsi sul repertorio tradizionale, senza dover studiare lavori che chiedano di estendere le proprie capacità percettive e tecniche… e molti organizzatori pensano unicamente in termini di business e numeri, usando questi ultimi come pretesto per eliminare tutto ciò che non ha un riscontro rapidissimo e di facile digeribilità”.
Carlo Boccadoro, che ha patito sulla sua pelle discriminazioni da parte di discografici e direttori artistici (come molti altri colleghi italiani: Giovanni Sollima, Luca Francesconi, Ivan Fedele, Fabio Vacchi, Giorgio Battistelli) parla delle sue esperienze con pacata amarezza, rilevando come da noi si tenda da sempre a penalizzare ogni novità, e a essere prevenuti per incompetenza. Molti sono invece i contemporanei felicemente e frequentemente eseguiti all’estero: non solo i più noti Arvo Pärt, Philip Glass, Osvaldo Golijov, John Adams, Michael Nyman, (conosciuti e trasmessi anche dalle nostre radio), ma gli altrettanto eccellenti Haas, Rihm, Widmann, Larcher, Glanert, Mazzoli, Abrahamsen, MacMillan, Adès, noti in Italia quasi solo agli addetti ai lavori. Non sono pertanto gli autori, ma i responsabili delle istituzioni culturali che dovrebbero incoraggiare una programmazione moderna costante, consapevole, varia e di qualità, per incrementare l’ascolto di musica classica d’avanguardia.
A questo scopo, un ulteriore stimolo potrebbe venire dalla rete, che ha completamente modificato il modo di produrre musica e di fruirne, permettendo a tutti di ascoltare qualsiasi melodia in diretta streaming, di assistere a concerti e registrazioni collegandosi a YouTube, di mescolare differenti generi musicali su Spotify. L’avvento dell’informatica nella composizione ha fornito nuove possibilità di esecuzione e di diffusione del suono, creando poliritmie ed espandendole spazialmente in luoghi chiusi o all’aperto, e ciò rappresenta indubbiamente una grande opportunità per chi scrive sul pentagramma. Ma quali sono i pericoli in agguato per i consumatori di brani online? Ogni novità viene frammentata in pre-ascolti su iTunes o in compilation offerte da altre piattaforme digitali, per lassi di tempo brevissimi poiché sembra che gli utenti non riescano a concentrare l’attenzione se non per pochi minuti, esaurendo ogni interesse verso qualsiasi tipo di approfondimento. Evidentemente, l’accelerazione della vita quotidiana e le troppe distrazioni imposte dai social e dall’uso del cellulare stanno abituando le persone alla facilità di proposte culturali ovvie, ripetute, veloci e circoscritte. Un’opera lirica o un’intera sinfonia vengono così inserite in internet solo se frazionate, e nei brani più memorizzabili, mai nella versione integrale che risulterebbe indigesta. Ciò produce negli ascoltatori “un vero e proprio analfabetismo sonoro di ritorno rispetto alle capacità di seguire strutture musicali che richiedano un tempo significativo per esistere”.
Così molti compositori, temendo di non riuscire a captare l’attenzione del pubblico, tendono a ripetere formule stereotipate che li rendano immediatamente identificabili e riconoscibili nella peculiarità del loro stile, e a ogni esibizione finiscono per riproporre solo moduli collaudati. Si ottiene in tal modo un azzeramento della qualità musicale, in una uniformità banalizzante e superficiale, come sta avvenendo in altri settori del mercato produttivo (moda, cucina, letteratura). A questo punto, forse solo la musica classica può rappresentare una ribellione all’omologazione preconfezionata che ci propinano i media e la rete, aiutandoci a fare della nostra vita qualcosa di più autentico e arricchente.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 11 luglio 2019