FRANCESCA RIGOTTI, UNA VITA DA EXPAT – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2019
Migranti economici, migranti politici, migranti intellettuali, migranti turistici. O Migranti per caso, secondo l’ammiccante titolo dell’ultimo libro della filosofa Francesca Rigotti, che coniuga ‒ con leggerezza e sapienza ‒ riflessione teorica e autobiografia, definendo sé stessa “expat”, con un neologismo risultante dall’abbreviazione dell’inglese expatriate, derivato dal verbo latino ex-patriare: uscire, allontanarsi dalla patria. Il termine, utilizzato soprattutto nei paesi anglofoni, significava originariamente persona in esilio; oggi, persona che vive per scelta in un paese straniero.
Nata e cresciuta a Milano da genitori di origine pugliese, Francesca Rigotti si è laureata in Filosofia all’Università Statale di Milano, ha conseguito il dottorato in Scienze Sociali a all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e la libera docenza in Scienze politiche a Göttingen, in Germania. Dal 1996 insegna alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera Italiana di Lugano. È, quindi, a tutti gli effetti una expat. Ma così si interroga: “Sono un’expat o sono una migrante? Sono europea, bianca e istruita. Ma sono anche evidentemente emigrata e immigrata”.
Utilizziamo diversi vocaboli per indicare chi lascia il paese nativo: “migranti, emigranti, emigrati, immigrati, profughi, rifugiati, esiliati/esuli, nomadi, transumanti, pendolari”. Tutta una varia umanità in movimento, di persone singole o famiglie intere: affamati e semianalfabeti, oppure qualificati e richiestissimi manager, tecnocrati, creativi. Rigotti osserva il fenomeno migratorio dall’esterno, con interesse scientifico e partecipazione di studiosa; ma lo esamina anche dall’interno, con la competenza che le viene dal suo stesso percorso esistenziale. Perciò intercala nel volume pagine descrittive e riflessive di analisi con brani narrativi di stampo diaristico, distinguendo le due diverse esposizioni anche nei caratteri tipografici, e alternando la prima alla terza persona.
Non è detto che espatriare partendo da una condizione privilegiata per arrivare a occupare un ruolo economicamente e professionalmente più redditizio non comporti anche sacrifici, rimorsi, rancori, malinconie o pentimenti. Mogli e figli di professionisti che si trasferiscono all’estero patiscono spesso un senso di esclusione e di disorientamento, costretti come sono a una “emigrazione da matrimonio” in cui il soggetto più debole è tenuto a adeguarsi alle esigenze o alle aspirazioni professionali del capofamiglia maschio, rinunciando a una realizzazione personale. Mogli-Penelope, allontanate dall’ambiente d’origine, dai parenti e dagli amici per un obbligo di fedeltà e dedizione al proprio marito. In parte così è stata la non sempre facile vita dell’autrice, che ha scelto di seguire il suo compagno tedesco a Göttingen, scontrandosi con difficoltà linguistiche e di adattamento locale, con fatiche domestiche e materne (quattro figli in pochi anni), con un’affermazione lavorativa e intellettuale tenacemente perseguita ma irta di ostacoli. Attuando una sorta di resistenza passiva, di “non rinuncia nella rinuncia” è riuscita comunque a conquistare una posizione di rilievo in ambito accademico, firmando numerose e importanti pubblicazioni, e ottenendo riconoscimenti e premi internazionali.
I sacrifici che il suo stato di expat ha comportato sono paragonabili alle sofferenze di un migrante che fugge la povertà o la guerra, che si imbarca su un gommone, che viene imprigionato in un campo profughi, picchiato o violentato, privato dei documenti e della dignità di essere umano? Chiaramente si tratta di condizioni non paragonabili: ma l’uguale destino di allontanamento dalla propria terra (forzato o volontario che sia), di dislocamento in un altrove estraneo, rende la testimonianza di Francesca Rigotti particolarmente preziosa.
“Ho deciso di aggiungere la mia voce al coro che parla di migrazione e anche di filosofia della migrazione, perché questo è un problema urgente, e io sento l’impellenza di farlo. E lo faccio mischiando la storia grande con la piccola, la mia migrazione e quella di tantissime altre persone, in realtà per cercare, più che soluzioni, conforto e senso, per me e per loro. Lo faccio anche applicando al fenomeno della migrazione e dell’espatrio le mie competenze metaforologiche, ovvero di studio delle immagini, delle analogie e delle metafore con le quali descriviamo tali fenomeni”.
Il volume collega infatti i ricordi e le considerazioni personali a riferimenti filosofici, sociologici, linguistici, documentati da opportune citazioni letterarie, che puntualmente avvalorano le intuizioni dell’autrice. Oltremodo interessante risulta per il lettore l’analisi delle metafore associate al fenomeno migratorio: l’acqua (inondazione, fiume, diluvio, corrente, flusso, tsunami, naufragio), il muro (argine, chiusa, diga, barriera), il confine (frontiera, difesa, controllo, sorveglianza, respingimento), le radici (identità, origine, terreno, rizoma). Termini che l’autrice riconduce all’indagine dell’inconscio, utilizzando l’interpretazione psicanalitica di Freud, Bachelard, Blumenberg, Deleuze, Guattari, Jullien. “Il concetto dell’acqua, elemento femminile per eccellenza, è carico di valori e simbologie affini alla valenza negativa della donna: la fluidità corrisponde allora a debolezza, inferiorità, disgregazione. L’elemento cui l’acqua si contrappone in questo schema interpretativo è ovviamente la terra: vediamo quindi nella correlazione solido/fluido, maschile/femminile una ripartizione di attributi e competenze che pone dalla parte del solido e del maschile sovranità, attività, forza, protezione, permanenza, stabilità, e dalla parte del fluido e del femminile debolezza, bisogno di protezione, passività, dipendenza e instabilità”.
A chi ritenga i migranti una minaccia (per cui “è meglio per loro e per tutti che se ne stiano sul loro suolo natìo”), Rigotti oppone il convincimento che “viviamo in una società pluralizzata, dalla quale non c’è via di ritorno al passato e alla sua reale o inventata purezza e omogeneità. Nella società pluralizzata… le migrazioni avvenute e in corso modificano, senza particolari intenzioni ma unicamente con la loro presenza, tutti quanti, anche gli aborigeni, i nostri”. Pertanto la contrapposizione noi/loro (“Prima i nostri!”), la discussione che da Cicerone a Kant tenta di dirimere la questione tra diritto di visita e di movimento e obbligo di ospitalità, finisce per non avere più alcun senso, alla luce di quanto sancisce la Carta di Lampedusa del 1° febbraio 2014, riconoscendo che noi tutti esseri umani abitiamo “la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata”.
Sia per i rifugiati sia per gli expat la migrazione è una situazione ambivalente, “dolorosa e creativa”, perdita e insieme guadagno di esperienza, se si ha il coraggio di mettere in discussione i concetti costrittivi e limitanti di identità nazionale, di appartenenza patriottica, di tradizione. L’arricchimento culturale e linguistico che deriva dall’uscire dal guscio protettivo del cerchio familiare e amicale, dall’istituire confronti, dal modificare abitudini e conformismi, può risultare un atto di libertà e di crescita: dando vita all’elaborazione di una terza cultura, diversa da quella originaria e da quella di accoglienza, più personale e senz’altro sofferta, ma orgogliosa di sé e delle proprie conquiste.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 23 luglio 2019