MILO DE ANGELIS, POESIA E DESTINO – CROCETTI, MILANO 2019
«Perché ristampare queste mie vecchie pagine? Perché da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro ‒ intatto, quasi intoccabile dal tempo ‒ e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre. Molti temi di “Poesia e destino” sono quelli che mi scuotono ancora oggi: la tragedia, l’eroismo, l’adolescenza, il mito, il gesto atletico. Ma il tono è un altro. Il tono è furente, perentorio, imperativo, dà sempre l’impressione di un ultimatum che io pongo a me stesso e a chi mi legge. È come se da lì a poco dovesse scaturire una sentenza senza appello, l’ultimo grado di un processo dove si gioca la condanna o la salvezza. E questo tono guerresco circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate. Ora non potrei nemmeno immaginare quella corsa sulle macchine volanti della parola». Così scrive Milo De Angelis nella nota introduttiva a Poesia e destino, una raccolta di contributi critici, frammenti narrativi, dichiarazioni di poetica, pubblicata da Cappelli nel 1982, e riproposta quest’anno da Crocetti.
Il poeta milanese ammette l’attuale ammorbidimento teorico (e forse anche ideologico), in parallelo con quello stilistico-formale della sua scrittura: più tormentati, oscuri, franti i versi giovanili di Millimetri, più meditati e indulgenti quelli della maturità. Eppure, con la loro rabbiosa focosità queste prose degli anni ’80 (anni ribollenti di inquietudini, eccessi, trasgressioni) continuano a incuriosire e affascinare il lettore di oggi, pur nella loro esibita intemperanza, aggressiva ostentazione.
Il volume si divide in tre sezioni: nella prima sono raccolti articoli di critica letteraria, la seconda riflette sul tema dell’impresa e dell’azione eroica individuale, la terza attraversa l’universo del pensiero indiano, con le sue seduzioni e ansie di assoluto. La parte iniziale (Compleanni, quasi a suggerire rievocazioni da rispettare e celebrare) ci presenta una ventina di interventi che spaziano dagli omaggi ai poeti più amati – Novalis, Hoffman, Rimbaud, Cvetaeva, Campana, Celan, Barbu, ‒ alla rilettura dei miti greci, dalle considerazioni su diverse espressioni dell’esistere alle pieghe/piaghe delle moderne mode culturali: sempre privilegiando ciò che, innalzandosi dalla piattezza del reale, lo divora e lo rigetta. Meglio il silenzio piuttosto che la parola abusata, quindi; meglio gli abissi che la superficie; meglio la tragedia che la farsa, il delirio che il conformismo mentale. Il silenzio non ha un passato da nascondere, né un futuro da attendere; l’astrologia è simulazione fantastica e divinazione; le sostanze psicotrope potenziano il verbo; la poesia non deve svenarsi in elegia ma, assorbita la potenza concettuale del Logos, sfigurarla in immagine. Questa visionarietà fremente dell’autore si traduce in una prosa secca, basata su un lessico inventivo e disorientante, in giudizi trancianti e alteri («gli aloni del dormiveglia» in De Libero e Quasimodo, «l’occhio da guardone» di Penna, la «linea giornalistica» di Vergani-Ravegnani), in sintonia con l’idea principe di una letteratura assoluta, di un’arte che pretende l’inabissamento o il volo, di una poesia che si fa destino, oppure non è.
Nella sua intensa e ammirata postfazione, Lorenzo Chiuchiù scrive: «Per De Angelis la bellezza getta l’esistenza sulla soglia di un pericolo, conduce l’anima dove l’irrevocabile sembra ricapitolare nell’istante il senso o lo scacco delle vite… La poesia è l’espressione di questa legge che incombe e irrompe nelle vite e alla quale, senza esitazioni, si risponde alzandosi in piedi: rifiutando la genuflessione e senza millantare ascensioni».
Feroce nel suo odio per la calligrafia, l’estetismo, l’intrattenimento, la compassione, la commozione, la retorica, Milo De Angelis esprime nel secondo capitolo del libro la sua adesione convinta e spietata a ogni atto di resistenza e di eroismo, gratuito e non corruttibile. Con tonalità apocalittiche e incandescenti, con accenti nietzschiani e wagneriani, chiarisce cosa sia L’Impresa: «… intelligenza che si ghermisce mentre si alza e sa indignarsi con chi le chiede di essere clemente».
Chi invoca comprensione, e verrà invece calpestato? Gli arbitri, gli accattoni, i compagni di villeggiatura, gli abbronzati, gli amanti soddisfatti, gli inermi, i fratelli, i benefattori (“letamaio di aureole”). «L’impresa d’altronde è sempre quella: una pura vittoria che non spartisce il bottino: lo getteremo ai gatti ed essi fuggiranno. Rimangono solo i corpi dei bambini vili, nella polvere, a reclamare la loro parte, come dei gufi che hanno paura della notte». L’eroe si ciba di «mercenari, damigelle, fedifraghi», urlando la sua ira contro il tiepidume: «Nasce una collera, la quale afferma senza addentellati: collera che non può essere appresa e non tenterà mai di giungere alla ferita addizionando le ammaccature. Essa, frontalmente, annienta. Senza ammonimento, senza presentare gli ambasciatori… Questa collera dunque non conosce persecuzioni né angherie: amando se stessa, non risparmia e non si risparmia… Essa, imperterrita, continua a cancellare creature con sereno accanimento: non erano colpevoli e dunque non saranno riconoscenti». È parola di fuoco, quella espressa dalla poesia, non destinata a placare o a sanare. «…una parola monsonica spazzerà via la minutaglia senza mercanteggiare. Nulla sarà più medicabile. Questo è il silenzio. Nulla di morigerato, nessun mozzicone. L’impresa è imminente e gli imputati sono da un’altra parte, nel loro guardaroba o nel loro guazzabuglio».
Nella terra desertica e muta che L’impresa ha creato intorno a sé, si aprono tuttavia percorsi primitivi e vergini, Tre vie indiane che Milo De Angelis esplora nell’ultima sezione del volume, puntellata da letture, voci, episodi di antico sapore orientale. L’approfondita conoscenza dei testi sacri dell’induismo (Bhagavadgītā, Brahmasūtra, Ṛgveda, Yoga Sūtra, Viveka-Cuda-Mani, Mahābhārata…), e la meditazione sugli insegnamenti dei maestri, ha portato l’autore a penetrare i concetti fondamentali della religione induista (trasmigrazione, nirvana, riparazione nella rinascita, risveglio, Karman), che ritrova nella sensibilità di alcune grandi figure della storia e dell’arte mondiale di ogni tempo (da Pia de’ Tolomei a Gaugin, dal Principe Miskin a Pär Lagerkvist), recuperati anche in vari incontri e scambi meditativi avuti nel 1980, e trascritti in una sorta di diario dialogato.
Sempre con l’obiettivo di riscoprire ed evidenziare quanto la parola – la parola poetica, dell’inconscio e dello scavo interiore ‒ abbia il potere di modificare il destino di un individuo e di una collettività».
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 5 settembre 2019