Valentino Ronchi, poeta e libraio
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- Cosa ci puoi raccontare dell’ambiente in cui sei nato e ti sei formato culturalmente e di quello invece in cui oggi vivi e lavori?
Oggi abito a Melzo, lontano quanto basta da Milano per esserle vicino ma distante. Sono cresciuto a Bresso, che invece è un paese della cintura, quasi un quartiere di Milano. Paese popolare, dove si parlava in pugliese e calabrese, napoletano e siciliano, cui sono ancora legatissimo e affezionato. E ho abitato a Milano. Insomma, alla città continuo a girarle intorno. Il liceo Omero poi la Statale e la Civica Scuola del cinema, a Milano, ma anche molta Roma e la Toscana e le Marche sono altri luoghi miei, per diversi motivi, dove è avvenuta la mia formazione. Insieme all’esperienza sul campo, con il lavoro dei vecchi libri, che mi ha spiegato tanto del libro e delle sue storie, ma anche dell’uomo e delle sue storie.
- Attraverso quali letture e incontri ti sei avvicinato alla letteratura? Verso quali autori classici e contemporanei ti senti più debitore?
La letteratura era sempre l’altro, il desiderio e spesso la fuga. Mi laureavo in filosofia e leggevo Bassani e Pavese, per fare due nomi; studiavo il cinema – sceneggiatura alla civica con il caro e compianto Gaetano Sansone ‒ e leggevo poesie o scoprivo Meneghello, e cominciavo a scrivere racconti e poesie mie. Devo molto a Jankélévitch, filosofo per scelta marginale, incontrato per un esame con Laura Boella e mai più abbandonato, poi a un certo cinema – ieri stavo riguardando il meraviglioso Mahlzeiten di Reitz ‒ al greco e al latino. Ma anche alla canzone, poesia per tutti come la chiamo io, che non mi vergogno di dire fa parte di me e che ora sto finalmente praticando anche come scrittore, come autore di testi.
- In che relazione si trovano la tua produzione narrativa e quella poetica?
Si somigliano parecchio, io non le distinguo neppure, da lontano, per quanto ovviamente io sappia distinguerle da vicino. Probabilmente al momento mi riesce meglio scrivere versi e canzoni rispetto a romanzi e racconti. Non so perché, per ora è così e forse lo sarà per sempre, ma di questo poco importa.
- Ritieni che i blog letterari, i festival e le fiere del libro esercitino una reale funzione formativa e di stimolo intellettuale sui lettori, e aiutino il mondo dell’editoria verso un’effettiva crescita economica e di spessore culturale? E per la poesia, c’è ancora spazio e interesse, soprattutto tra i giovani?
Non ho particolari competenze per un’analisi adeguata. Penso che ogni campetto sia buono per giocare. Quando giocavo in una squadra vera, mi piaceva giocare anche all’oratorio o nell’ora di ginnastica a scuola, o l’estate con compagni sconosciuti. Non c’è un meglio o un peggio, né un’unica strada, c’è il posto dove in quel momento stai bene – o male. Sono stato benissimo autoproducendomi, dieci anni fa, fuori da ogni sentiero battuto, sto benissimo nella grande editoria con Fazi, in una collana prestigiosa fitta di narratori e poeti che mi erano già compagni – Williams, Fante, Damiani, Zeichen, la Strout, la Cather, per fare qualche nome – e ora sono addirittura compagni di collana. Così come, invece, non sono portato per parlare di poesia in internet o pubblicare poesie nel web, sui social, e anche nel farmi vedere in giro resto un po’ restio, ma quando vado faccio il meglio per divertirmi e divertire. Ci sono insidie e belle cose ovunque, come in qualsiasi impresa umana.
- Nel tuo ultimo bel volume di versi, “Buongiorno Ragazzi”, fondi insieme elementi biografici e di invenzione, nostalgia e ironia, in uno stile originale, quasi narrativo. Ce ne vuoi parlare?
Biografia e invenzione sono necessarie entrambe, per quanto ne so io, per raccontare qualcosa. E Buongiorno ragazzi è un capitolo – autonomo, ovviamente – di un’opera più ampia. Forse sarà il capitolo più letto, per diversi motivi, ma anche questo è un dettaglio. Si parla di un liceo, improvvisamente ricordato e in qualche modo rivissuto dopo la morte del professore di greco, avvenuta quando gli studenti sono adulti ma ancora giovani. Le poesie si muovono dentro questo canovaccio. Ma, come dico agli amici e alle amiche di quegli splendidi tempi, voi ci siete e pure non ci siete qui dentro: biografia e invenzione, appunto, per una sorta di pudore verso le cose troppo importanti, così importanti che sono al limite dell’irraccontabile, anzi sono irraccontabili, se non camuffate e riscritte.
© Riproduzione riservata 22 novembre 2019