I
Conosci il vuoto,
ore lente a passare
e l’insonnia la notte.
Speravo di incontrare
qualcuno, uscendo,
ascoltare parole.
Grazie prego grazie:
almeno.
Invece silenzio,
ombre, sguardi altrove.
Forse solo per questo
ho deciso.
Non avevo niente da fare,
niente da perdere.
Più nessun desiderio speciale.
Mi sono innamorata
per questo motivo
solamente. L’amore
c’entra poco, o niente.
II
È bastato un tuo ritardo,
la scorsa settimana,
per farmi tremare.
Così, improvvisamente,
ho capito, con paura di capire.
Poi una frase,
buttata lì come un saluto
del tutto indifferente,
e uno sguardo
quasi fosse una carezza.
Ho capito, e nel capire
mi sono fatta tenerezza.
III
Non mi hanno insegnato
(quando mi hanno insegnato
a parlare) a dire di te
le cose giuste (a chi di te
voleva sapere), che giusto
ti facessero apparire.
Non mi hanno insegnato
parole diverse
per fare diverse le sere
le mattine. Nostre.
Sono rimaste
di tutti e di sempre,
le mie parole.
Come le storie
e gli amori di tutti.
IV
Probabilmente non lo sai
o non vuoi confidarlo
nemmeno a te stesso.
Hai bisogno di me.
Sempre, e adesso.
Per questo sono qui, stasera:
pena di noi, oppure
un cuore troppo tenero.
Timore che perdendomi
tu finisca per perderti.
Eccomi, allora,
e non è stato facile.
Scalare una montagna
per chiederti «Lo vuoi,
il mio bene, ancora?»
V
Proprio non mi hai capito,
forse mai.
Sei lì che aspetti sempre.
Fermo, zitto. Non so
se insofferente.
Aspetti che sia io a parlare,
a fare il primo gesto.
Murato nel silenzio,
incementato.
Mi costa tanto
riuscire a non abbatterti
a colpi di bazooka.
Se non mi chiami adesso:
ti detesto.
VI
Tenaci a sperare
per pura abitudine,
senza scopo o ragione.
Domani uguale a ieri
(così sfocato
che non lo ricordiamo,
il nostro passato di nebbia);
un giorno, un altro giorno,
il giorno prima.
Un’ora, o l’ora dopo,
il nuovo anno.
Continuiamo,
solitudine in due;
ma non vale la pena.
VII
Io sì.
Non quell’altra
che alla fine ti sei scelto.
La poverina, la noiosina.
Io sì.
Non lei ubbidiente.
Dolce, silente.
La cagnolina, la cinguettina.
Io sì.
Non una brava in cucina.
La cucitrice, la stiratrice.
Donna in cornice.
Io sì.
Lei che sbadiglia,
che ti somiglia.
La sorellina, la cuginetta.
Io sì.
Ti ho consegnato,
con lei,
la mia vendetta.
VIII
Stanca distratta distrutta
non ho nemmeno voglia di parlare.
Mi fa fatica anche solo guardarti.
Vedrai che piano piano tornerò
quella che ero.
Non essere però troppo paziente;
non sei mio padre, non sono una bambina.
Vedrai che se mi sgridi
qualche volta, (mio severo)
ce la farò a cambiare.
Non ti deluderò
per sempre.
IX
Ti verrò in mente quando
mi avrai perduto.
Improvvise torneranno
a stupirti
le frasi che suggerivo,
incantate, sospese.
«Noi siamo il cielo»,
dicevo. «Siamo gli alberi».
Ricorderai
di come sorridevo,
di come sorridevi «Anche le nuvole?»,
chiedendo.
«Anche», mentivo.
X
E lontano in due dimensioni
ti ho nascosto nelle nove
restanti.
Sparso ovunque. Sperso
come sempre sei stato.
Ma riaffiori, ogni tanto,
imprevedibile inatteso,
a guardarmi
con la tua timidezza
di offeso, benché innamorato.
Lontano irraggiungibile,
tempo e spazio nemici.
«Il Pickwick», 12 gennaio 2020
In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya Edizioni, Milano 2020