FEDERICO ITALIANO, HABITAT – ELLIOT, ROMA 2020
Federico Italiano è, a mio parere, tra i poeti nati negli anni ’70, il più solidamente ancorato a una nostra tradizione di poesia narrativa, e il più originalmente innovativo nel recepire e fare suoi stimoli culturali provenienti da ambiti non solo letterari, ma anche filosofici e scientifici.
Già leggendo una precedente raccolta, L’invasione dei granchi giganti, avevo ricavato questa impressione di composta padronanza dei mezzi espressivi, nel loro muoversi tra ambienti interni ed esterni, passato e presente, scrittura descrittiva e meditativa. Ora, in questo nuovo volume di versi pubblicato da Elliot, Habitat, Italiano affina il suo sguardo introspettivo in una dimensione delicatamente malinconica, nella rievocazione di figure e paesaggi amati, e contemporaneamente analizza con severa analiticità il proprio vissuto includendolo in un orizzonte storico, geografico e sociale più ampio e complesso.
Habitat, appunto, ciò in cui siamo inseriti e che ci circonda: e che per lui, piemontese della pianura padana, ricercatore a Vienna, critico letterario e traduttore dal tedesco, scisso tra due lingue e due culture, diventa stimolo e vincolo insieme, provocazione e freno. La prima delle cinque sezioni del volume è quindi circoscritta nell’ambito di un privato domestico, tra ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza vissuta a Romentino, in provincia di Novara, e rievocazioni di figure amicali, o di ambienti lavorativi già più adulti. Squarci di memoria, inteneriti ma lontani da ogni compiacimento retorico. Così la visita alle zie “con l’Audi 80 / color senape”, e altri personaggi tipici del paese (il medico condotto, camiciai gommisti cacciatori e anziane signore sulla Graziella…), animano uno sfondo di periferia industriale spoglia e angosciante, attraversata dall’autostrada Torino-Milano, con i tir rombanti e fumosi, e frantumata da risaie inondate per la semina e sorvolate dalle “garzette bianche dal becco nero”. La caccia alle rane sugli argini del Ticino, tra tafani zanzare e libellule, e la magica apparizione di uno sdegnoso airone cinerino, o di due leprotti saltellanti tra le felci e i canneti, abbatte i muri dell’appartamento di famiglia, aprendolo in un contesto di spazio ecologico.
Il bambino di allora, curioso di ciò che gli stava intorno, torna a vivere ponendo domande al poeta diventato uomo (“Non avevo paura delle case degli altri / da bambino, ma adesso / sono i loro fantasmi a farmi visita”): la più assillante e tormentosa, su cosa si perde e cosa si guadagna allontanandosi dalle proprie origini (“penso… / al coraggio – che non ho – di sparire, / di piantarla lì, per unirmi calmo al tavolo dei giusti, // dove mani adorate hanno steso la tovaglia, / disposto piatti caraffe posate / e un vassoio di verdure alla griglia”). Personale e universale, nella poesia di Federico Italiano, si rincorrono, intrecciandosi e sfidandosi: l’amore con la prima ragazza fatto in piedi, appoggiati alla parete di una chiesetta abbandonata, si proietta poi nel giro cosmico dei pianeti; l’impiego universitario e la convivenza matrimoniale a Monaco si inseriscono nella cornice della storia secolare del Regno di Baviera. Nelle altre sezioni del volume, il poeta si muove su terreni diversi e compositi, immaginando tattiche di sopravvivenza in un habitat estraneo, alternativamente umano animale o vegetale.
Allora, le strategie di combattimento difensive vanno acquisite imitando Il metodo nigeriano per vincere a Scrabble; alla fauna differenziata della Foresta Nera (astori, fringuelli, serpenti, corvi, conigli, leprotti, galli cedroni, passeri, scoiattoli, nibbi, poiane, sparvieri, venturoni alpini…), si oppone confortante il ricordo degli animali domestici posseduti nell’infanzia: cani, gatti, tartarughe, canarini, pesci rossi. L’ironia di un umanissimo “Supplemento alle beatitudini” premia ed esalta gli outsider sociali (clandestini, insonni e sonnambuli, ritardatari, magazzinieri: “Beate le colf, perché il regno dei cieli / è pulito”). Nell’amara litania di Pronome indefinito, si elencano i tanti anonimi “qualcuno” che popolano il mondo, salvandolo o inquinandolo con le loro presenze e assenze: “Qualcuno dichiarò che non ci avrebbero / messo in salvo le lingue dei sapienti / ma ciò che crea gioia negli interstizi”. Una parodia del Qohèlet esorta a un atteggiamento fiducioso e positivo nei confronti della vita troppo fugace. Sogni e fantasie si trasformano in vere e proprie allucinazioni, mimanti assalti militari a una città nemica, o metamorfosi corporee in differenti specie subumane, o ancora viaggi in una spettrale Europa nordica, rianimata da profetici incontri con sconosciuti. Anche la voce di raffinati poeti del passato, orientali ebraici europei, porge lo spunto per eleganti rivisitazioni e rielaborazioni tematiche, e i Frammenti d’autunno conclusivi offrono al lettore accenti di dolente abbandono sentimentale.
Resta forse da accennare qualche considerazione sullo stile di questa raccolta, classicamente omogeneo, privo di sperimentalismi e dissonanze formali, e invece fedele a un pensiero emotivo letterariamente sorvegliato, espresso in tonalità limpidamente narrative. Il linguaggio usato appartiene a un lessico mediamente domestico, in cui l’unica ricercatezza pare essere l’attenzione all’esattezza della terminologia scientifica. Una puntualità resa sulla pagina anche dalla scansione ordinata del susseguirsi di strofe perlopiù in terzine e quartine, a offrire un respiro più ampio e modulato di lettura.
© Riproduzione riservata 23 gennaio 2020
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