ANTONELLA ANEDDA, TRE STAZIONI – LIETOCOLLE, FALOPPIO 1996
Per le eleganti edizioni di Lietocolle, è uscita in questi giorni una plaquette di Antonella Anedda, Tre stazioni, che raccoglie, scandite appunto in tre tempi, riflessioni (o aforismi, o brevi pezzi di prosa d’arte, o illuminazioni, o meditazioni: come insomma ciascun lettore decida di chiamare queste poche pagine), contrappuntate di suggestive immagini fotografiche.
Anedda è ottima poetessa, che predilige toni densi e una forte tensione emotiva, quasi che ogni parola andasse scavata e incisa, prima di farsi visione, nella sofferenza stessa dell’essere, dell’esserci. Le sue “stazioni” sembrano rifarsi proprio alle stazioni, contrite e gravide di ogni colpa del mondo, di una Via Crucis universale, in cui crocefissa è, più che il Cristo, l’umanità stessa, vittima sacrificale, agnello predestinato a immolarsi di fronte a un male cosmico, eterno e indistruttibile. Data questa premessa, è evidente che a un io personale l’autrice antepone il noi collettivo, perché questa dimensione metafisica – più che sociale o storica -, del dolore, investe tutto e tutti, ogni materia creata.La nostra condanna è comunque anche la nostra salvezza, il soffrire è ciò che ci libera e santifica: a benedirci sarà una “scure pesante”, a vincere sarà “la povertà della roccia”, la rinuncia mite, la schiena piegata sotto il peso dei peccati umani. Il topos dell’innocente che paga per tutti, di colui che si danna per salvare altri, trova una sua espressione in Francesco, nel Gesù del Getsemani, nell’asino da soma e in chi si fa sapientemente vittima per vincere spiritualmente il male attraverso la propria sconfitta fisica, materiale.
Ecco allora che tutto risponde a un dualismo (morte-vita, peccato-redenzione, offesa-perdono, violenza-dolcezza): da una parte c’è il rancore, la colpa, la paura, la fuga. Dall’altra “la grazia di un punto scuro e perfetto”, intesa come capacità di resistere al male (non compierlo, non accoglierlo, dilazionarlo nel tempo, scegliere “la lentezza che può salvare una vita”). Tuttavia, basta? Basta “non fare” per salvarsi e salvare il mondo? Non è anche la rinuncia, l’astensione, “l’illusione di ogni viltà”?
“Farsi mangiare per ultimi” è “un’astuzia inutile”, se tanto a vincere comunque è il male. Antonella Anedda sembra ripercorrere, ma con meno ottimismo, la via indicata da Bonhoeffer, scissa tra resistenza e resa. Con la speranza che la vittoria del male non sia eterna, ma venga condannata dal suo stesso limitarsi nella dimensione del tempo: “Perché è vero: il bene è profondo, ma il bene è fragile. A differenza del male sfuma lentamente tra i secoli, a differenza del male ha nostalgia anche di una sola creatura”. E che sia questa sola creatura, umilissima e “in bilico”, a riuscire a sconfiggere la sofferenza, ce lo auguriamo in molti, se lo augura l’autrice che ci ridà in alcune righe la stessa ansia di redenzione, di perdono e salvezza che abbiamo imparato a conoscere nelle preghiere dei primi cristiani, o in penetranti pagine di mistica.
© Riproduzione riservata «Il Manifesto», 16 gennaio 1997