VIVIAN LAMARQUE, UNA QUIETA POLVERE – MONDADORI, MILANO 1996
Nel 1996 Vivian Lamarque venne premiata dal prestigioso Pen’s Club per il libro di versi Una quieta polvere, che indicava una svolta importante nella sua produzione, una precisa e coraggiosa volontà di cambiamento contenutistico e formale rispetto ai volumi precedenti. Attiva già da un quindicennio in campo letterario, gratificata da molte e meritate attenzioni critiche, Lamarque era stata letta fino ad allora soprattutto, anche se non esclusivamente, attraverso le categorie della favola, dell’ironia, dell’analisi junghiana: elementi certo presenti nella sua scrittura, ma che non ne esaurivano il significato.
Nel volume di cui ci occupiamo apparve come una novità il tema dominante della morte, del lutto e della sua elaborazione a livello etico e intellettuale. Già dal titolo, tratto da Emily Dickinson, è evidente il richiamo alla dissoluzione finale del corpo. Nel poemetto omonimo, le nove sezioni sono scandite da immagini funebri di una presenza minacciosamente incalzante, rifiutata con terrore e quasi infantile testardaggine (“Io non voglio la morte Giardiniera / io voglio un giardino”, “io non voglio essere polvere”, “io non sono morta io sono nata”, “quando muoiono gli altri / non è come morire noi in persona”, “io al mattino voglio svegliarmi e alzarmi”), con un procedimento tipico e collaudato nell’autrice già dalla prima raccolta (Teresino, premio Viareggio nell’81), fondato su frasi lapalissiane, ribadite con ostentata e ingenua caparbietà. La morte, vissuta come buio, freddo e immobilità, è sofferta soprattutto in quanto distacco, conclusione definitiva di ogni sentire e patire, di ogni devozione e dedizione agli affetti: incomprensibile assurdità che ulcera l’anima e annulla il bene fatto e ricevuto. Da respingere, quindi, con paura e ostinazione, in nome della vita e dell’amore. Vivian Lamarque si ribella all’allontanamento, all’essere divisi in due, quando invece vorrebbe poter aspirare alla fusione totale e totalizzante.
La vicenda biografica dell’autrice offre un’evidente motivazione a questa penosa angoscia. Segnata da una serie di abbandoni già dalla nascita in provincia di Trento, poi adottata da una famiglia milanese presto colpita dalla morte del padre, in seguito vittima-protagonista di altre separazioni sentimentali, a partire da quella, fondamentale, avvenuta nel proprio matrimonio.
Nella prima sezione del volume, Madri padri figli, la storia personale dell’autrice è rielaborata con i toni fiabeschi di Hansel e Gretel, divenuti d’un tratto tragedia, incubo: la madre vera si trasforma in matrigna, il padre vero non si fa più vivo come il taglialegna di Grimm: l’abbandono diventa allora il più imperdonabile dei tradimenti, la più feroce delle violenze. La bambina cresce ferita, dimezzata, scissa: impara troppo presto a tacere e a negarsi (“Col punto erba / col punto croce / diligente si cuciva le labbra / faceva il nodo”), intuisce la sua diversità che diventa subito un marchio distintivo, promessa di infelicità futura (“Cenavo sola / o in altre case”, “Venti anni che trascina il ricordo / di quel riso bianchissimo / di una sera / da qualcuno da mangiare”, “Basta: alle dieci c’è da ringraziare / e scendere le scale”). Vivian bambina in prestito, passata da una casa popolare del dopoguerra a una colonia, a nuove e diverse case di vicini compiacenti, con la consapevolezza di qualcosa che le è stato negato per sempre (“Quei bambini in cortile / potevo essere io”). Poi l’età adulta, il marito, la figlia Miryam e una volontà inseguita affannosamente di ricreare un puzzle familiare che sapesse profumo di natali e compleanni, di trepidazioni condivise per febbri ed esami e assilli quotidiani: invece sopravviene ancora una volta un distacco, una rottura dolorosissima (“Non mi ero separata / padre madre figlia / la famiglia continuava unita / oh il percorso bello della vita”).
La ricerca di una famiglia è anche ricerca di una casa in cui stare e ritrovarsi, ancorandosi a qualcosa di fermo e luminoso: c’è in Vivian Lamarque questa esigenza concreta di luce e pulizia, di solidità e certezza, che si rispecchia anche nella resa formale della sua poesia, riconoscibilissima nel nostro panorama letterario proprio per il suo particolare timbro di limpidezza.
Cercasi: poesie per un trasloco è la quinta sezione del volume, dedicata appunto alla ricerca di un appartamento-guscio. La casa è vista come interno che difenda e permetta di ritrovarsi (“Cercasi casa / cercasi casa con sole /… cercasi casa / con dentro famiglia”), ma nello stesso tempo metta in relazione con altre realtà (il condominio, il quartiere, la città): “Quanto cara mi è questa finestra / che mi separa, e unisce a Milano”. La metropoli di fine millennio è abitata da nuove divinità: ladri distinti, governanti sussiegose, cani viziati, piccioni e piccioni, e “Persone / che chiamano Vù Cumprà”. Soprattutto a questi “nuovi milanesi di colore” va l’intenzione dell’autrice in un ideale testamento di solidarietà.
Se è nuova nella Lamarque questa corda del “sociale”, dell’interesse per ciò che è pubblico, con una accentuata sensibilità anche verso le tragedie mondiali, più consona e sua appare invece la voce intimista nell’accenno alla pratica di analisi junghiana. Dopo tre libri dedicati allo psicanalista con cui è stata in cura per molti anni, temi e toni rimangono costanti: un minimalismo formale e di pensiero (“Sonnambulina l’amavo / leggermente stordita”, “Caro Dottore / un amore vorrei / uguale uguale / a Lei”), per cui la poetessa si fa piccola, bambina, per essere guidata da chi può salvarla; un continuo e ricattatorio bisogno di donare per rendersi gradita (“Le ho portato / basilico rosmarino aghi di pino”); un’esibita adorazione, ingenua e auto-compatita (“Oh fossi io / la pagina di libro / che Lei / così fortemente riga”, “Io guardo / la forma del suo sguardo”, “quando Lei sarà albero / e io fogliolina / nessun ottobre / nessun novembre / riuscirà a staccarmi / scommettiamo? / dal Suo ramo”); il ricorrente pensiero della morte come separazione ma anche come unico modo per arrivare a una simbiosi definitiva (“Caro Dottore / quando La chiamerò nell’aldilà / ci sia mi raccomando / (e ci sia l’Eternità)”.
Il tema della fine, del disfacimento del corpo, conclude tutto il volume nella sezione Come i fiori, viva di una umanità dolce e dolente, di una malinconia consapevole, che tutto accomuna perché tutto si sa degno di pietas (terra, insetti, fiori): ma anche gli amici che ci hanno preceduto nell’addio alla vita, anche Pasolini, e coloro che per caso ci hanno accompagnato nel viaggio terreno (“A vacanza conclusa dal treno vedere / chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna / la loro vacanza non è ancora finita: sarà così sarà così / lasciare la vita?”).
Una teologia della quotidianità, una metafisica degli affetti, fanno di Vivian Lamarque una voce particolare nella nostra poesia contemporanea, subito riconoscibile tra tante, che da tempo abbiamo imparato ad apprezzare.
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https://www.sololibri.net/Una-quieta-polvere-Lamarque.html 6 aprile 2020