SANDRO BIANCONI,  I DUE LINGUAGGI – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Sandro Bianconi, noto sociolinguista ticinese, a un decennio di distanza dal suo discusso Lingua matrigna. Italiano e dialetto nella Svizzera italiana (Bologna 1980), ha pubblicato un nuovo volume destinato, come il primo, a smuovere le acque – piuttosto stagnanti – della ricerca linguistica dentro e fuori il Ticino, e a costituire allo stesso tempo un punto fermo della teorizzazione e un pungolo vivace al confronto. Infatti questo I due linguaggi, edito da Casagrande di Bellinzona, dichiara coraggiosamente e polemicamente i suoi obiettivi già dal sottotitolo (Storia linguistica della Lombardia svizzera dal ‘400 ai nostri giorni) e, in modo più esplicito, nell’introduzione. Definire il Ticino “Lombardia svizzera” è già prendere posizione contro certo sciovinismo e revanchismo che vorrebbero contrapporre la cultura di questo cantone a quelle confinanti, quasi fosse autoctona e assolutamente originale: «Lo spazio oggetto della mia ricerca coincide con quello delle pievi lombarde ambrosiane e comasche, che oggi costituiscono il Canton Ticino. E’ lontanissima da questo lavoro qualsiasi tentazione di riesumare scheletri (tuttora purtroppo presenti in certi armadi), quali “il genio ticinese” e simili. Lo ripeto: queste comunità non sono mai state una realtà unica, a sé stante, svizzere o ticinesi: si farà, quindi, la storia linguistica di una regione lombarda di frontiera, simile alle altre regioni lombarde alpine o prealpine: dal Comasco alla Valtellina alle valli bergamasche…».

Il titolo I due linguaggi sta ad indicare le due anime e le due culture da sempre presenti nella Lombardia Svizzera, tradotte nel binomio lingua/dialetto, in una diglossia vissuta come arricchimento e senza particolari traumi fino a questo secolo, e che solo oggi sembra essere sfociata in uno stato di disagio non solamente linguistico. Il volume si divide in tre parti, corrispondenti a tre periodi storici, e ben enucleate dai titoli : I. Italiani, II. Italiani svizzeri, III. Svizzeri italiani. La prima parte, Italiani, comprende il periodo di totale appartenenza al Ducato di Milano, tra il 1400 e i primi decenni del 1500, quando il ruolo del volgare nello scritto è ancora subalterno a quello del latino, e nei documenti si riscontra un predominio del modello cancelleresco con qualche variante di italiano regionale e presenze di frequenti toscanismi. Nonostante sia questa la sezione ovviamente più ridotta e forse meno stimolante del volume, tuttavia vi si possono ritrovare testimonianze di esemplare ricchezza e interesse sociale: ad esempio la condanna alla tortura di un ladro di Morbio Inferiore, colpevole di aver rubato tra l’altro «un paro de calzette rosse…». La seconda sezione, Italiani svizzeri, è la più consistente sia dal punto di vista quantitativo, sia per l’importanza dei documenti presentati e delle conclusioni raggiunte. Nell’età compresa tra il 1513 e il 1798, tuttora poco indagata dagli storici, caratterizzata dalla dominazione dei cantoni svizzeri e dalla costituzione dei Baliaggi svizzeri d’Italia, la gente ticinese si considerava con ovvietà lombarda, e riteneva Milano e Como tra i suoi veri centri di riferimento culturale: «Il sentimento di identità della gente cisalpina è rimasto costantemente e serenamente italiano sino all’affermazione concreta e definitiva dell’autonomia cantonale verso la metà dell’800!»

Gli elementi di italianizzazione del linguaggio si moltiplicavano allora con evidente vitalità, quasi a garanzia di una maggiore apertura culturale e sociale: i vivaci commerci transalpini, l’emigrazione qualificata di artigiani e artisti, la predicazione e il catechismo cattolico, le scuole parrocchiali e i collegi più esclusivi, tutto contribuiva alla diffusione e alla penetrazione della lingua italiana anche nel Ticino più interno. Fondamentali appaiono qui almeno due aspetti di quelli segnalati da Bianconi: in primo luogo l’importanza dell’emigrazione dei maestri d’arte ticinesi, che ha decisamente contribuito ad aprire le comunità cisalpine al mondo (creando una serie di bisogni culturali nuovi quali l’esigenza di comunicare per scritto con la famiglia rimasta in Svizzera e la conseguente richiesta d’istruzione; l’imperativo di comprendere l’italiano regionale e di adattarvisi; il confronto con esperienze artistiche e urbanistiche diverse e stimolanti); in secondo luogo, il ruolo avuto dalla Chiesa nel campo dell’alfabetizzazione popolare già a partire dal 1300, e più decisamente ancora dopo il Concilio di Trento, per cercare di contenere l’espansione del protestantesimo (e quindi le frequenti visite pastorali dei vescovi di Milano e Como, l’istituzione di seminari, l’apertura di scuole popolari e di collegi, in particolare dei Gesuiti e dei Padri Somaschi).
Sfruttando una vastissima documentazione storica, faticosamente recuperata attraverso accurate ricerche sia in archivi pubblici che in fondi privati quali quello della famiglia Oldelli di Meride, Bianconi riesce ad abbattere un pregiudizio diffuso e confortato da numerose teorie accademiche (cfr. pag. 57, 170, 205: l’autore si contrappone pressoché a tutto il Gotha linguistico italiano, Migliorini, Devoto, Dionisotti, De Mauro, Durante, Bruni, Marazzini…), e cioè che la popolazione delle vallate cisalpine comunicasse oralmente solamente in dialetto, e che l’italiano fosse invece riservato solo ai ceti alti, ai letterati e ai documenti scritti. Sulla base di numerose lettere private, di diari e inventari, di atti processuali e di rapporti ufficiali, Bianconi dimostra al contrario che la competenza almeno passiva dell’italiano era molto diffusa anche tra gli strati bassi della popolazione, e afferma che «la pluralità di usi linguistici, sia scritti che parlati, in funzione di situazioni comunicative diversificate, induce a ritenere plausibile l’esistenza di una situazione di diglossia con bilinguismo sociale sin dal ‘500».

Sempre dalla stessa data, lo studioso fa partire una situazione di bilinguismo italiano-tedesco al livello di dibattimenti processuali e degli atti ufficiali: «L’atteggiamento degli Svizzeri nei confronti dell’aspetto linguistico sembra essere stato, in generale, rispettoso della specificità italiana della popolazione cisalpina, tuttavia con eccezioni: ad esempio, l’imposizione del tedesco nella cause portate davanti ai cantoni sovrani…L’ordinamento amministrativo elvetico e l’adozione di alcuni usi del diritto tedesco portarono ben presto all’introduzione nel lessico regionale cisalpino, di livello ufficiale e settoriale giuridico-amministrativo, di una serie di termini tedeschi…».

Sono le prime avvisaglie di una situazione linguistica difficile, quale quella presa in considerazione nella terza parte del volume, che riguarda il periodo più vicino a noi, quando sorgono le più problematiche crisi di identità per il cantone ticinese, avviato a diventare autonomo e ancora alla ricerca di una propria voce, sempre nell’ambiguità tra accenti svizzeri e italiani. Svizzeri italiani si intitola appunto quest’ultima sezione, in cui Bianconi riesce a cementare le sue tesi linguistiche basandole su ben determinati avvenimenti economici, sociali e di costume, come l’emigrazione di massa, le frequenti carestie, la dichiarazione di autonomia (1803) e l’adozione della Costituzione Federale del 1874, l’apertura della galleria ferroviaria del Gottardo nel 1882 e infine l’istituzione della diocesi di Lugano.

«Questi eventi di natura politica, economica e culturale accentuano e portano a conclusione il processo di formazione dell’identità cantonale e nazionale, nel senso della crescita del sentimento di appartenenza alla Svizzera e di distacco e differenziazione dalla Lombardia e dall’Italia. Questo processo si attua con grosse difficoltà, risentimenti, diffidenze e polemiche… Così che l’identità cantonale finisce col nascere reattivamente e polemicamente, sia nei confronti dei confederati, in particolare degli svizzeri tedeschi, sia nei confronti degli italiani: nella paura di una possibile fagocitazione da nord, col rischio di estinzione economica, culturale e linguistica, e di un’annessione da sud, e quindi cancellazione politica. Nasce in questo periodo, e in questo contesto sociopolitico-economico e culturale, la nuova identità cantonale, ambigua e problematica, inserita com’è nella doppia tensione di appartenenza/esclusione politica, economica, culturale e linguistica, e che sfocia nel progetto illusorio di fondare la propria specificità autarchicamente, nel nome della propria unicità e diversità».

Come si vede, Bianconi non ha paura di usare parole forti per suffragare le sue tesi forti, né di essere accusato di “fare politica” occupandosi di dati storici e sociali, o riportando i dati allarmanti sulle percentuali costantemente calanti di italofoni in Ticino. D’altra parte, la sociolinguistica è scienza solitamente applicata all’indagine del presente, in qualche modo, quindi, “ideologica”, soprattutto quando, come qui, viene adoperata per lo studio del passato. Bianconi si è assunto il rischio di un approccio innovativo e polemico a una materia in genere affrontata con metodi paludati, e giustamente se ne compiace:

«Sono in ogni caso consapevole dei rischi che comporta, malgrado il rigore metodologico e la ricerca dell’oggettività, un approccio contemporaneo al passato,il dialogo tra l’oggi e l’ieri: ma non vedo altra possibilità di fare storia».

 

«Agorà» (Svizzera), 5 luglio 1989