MARIASOLE ARIOT, ANATOMIE DELLA LUCE – ARAGNO, TORINO 2017

Come nelle sue precedenti raccolte, anche in questa Anatomie della luce pubblicata da Nino Aragno nel 2017, Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) parla di sé senza svelare nulla di sé, attraversa il suo dolore come fosse il dolore di tutti, rimane dentro le cose che racconta osservandole con spietata analiticità dall’esterno: “Abbiamo spalancato un buio nella notte, è un paesaggio: di riflesso in riflesso l’occhio preme al di là delle cose, oltre ogni tana, strati retinici disposti a capitolare un mondo dentro un mondo”. Luce-buio, aperto-chiuso sono dicotomie che percorrono ogni pagina, sottoponendo la scrittura alla dura minuziosità dello sguardo, fisico e mentale: “Mi aggancio al buio come ad un osso masticato dai cani”, “ma il mondo resta fisso, immobile nel taglio di luce che taglia il cielo, che taglia questo taglio di cielo”, “Saturo di risposta l’aperto spalanca gli aggettivi: crollano pareti interne come interno è il mio corpo, esterno l’orizzonte che a tratti frequento e a tratti maledico”, “aspettare un rumore quando tutto è chiuso”.

Come si alternano chiaro e scuro, così nella stessa pagina si contrappongono versi e prosa, differenziati anche tipograficamente tra tondo e corsivo, quasi che l’abbandono musicale della poesia richiedesse continuamente il controllo razionale di un’indagine logica. Il libro è un diario scandito nei 28 giorni e notti delle fasi lunari, e cadenzato da foto in bianco e nero che serbano una velatura d’ombra a sfumarne i contorni. L’autrice ambisce infatti a mantenere l’oscurità del dettato, in un tono quasi oracolare che oscilla tra volontà di dire ed esigenza di nascondere, o perlomeno di confondere le tracce, sospettosa di qualsiasi rivelazione esplicita: le metafore di cui è fittamente intessuta la sua scrittura servono appunto ad allontanare la concretezza di una realtà dolorosa, ferita.

Scrive con ostinazione del corpo (nervi, pelle, mani, occhi), esplorandone sussulti e rigidità, ma senza esibire alcuna retorica sentimentale: proprio con la lucida scrupolosità della dissezione suggerita dal titolo della raccolta: “Lo spazio spaventato del tempo deriva i nervi, fluorescenze appena masticate, un lampo visivo o retinico agglomerato di sopravvivenza: questa sincronicità venuta a mancare, queste quote di pelle infilate ancora nella carne sono accadere di frammenti, vertigini di chi non sente”. All’occhio viene demandato il compito di esplorare il mondo, per evitarne le minacce, le trappole, gli imprigionamenti o gli addomesticamenti: “l’occhio che ferisce si compiace di vedere”, “Parla allora il gioco dell’occhio, fa’ dello scambio resilienza”. L’insistenza sulla fisicità non è mai gioiosa, mai clemente: l’orrore per la decomposizione del corpo, il ribrezzo per la deformazione della materia, più che a visioni da film horror rimanda alla paura infantile per le storie in cui le streghe mangiano i bambini, le foreste si animano di ululati, le paludi risucchiano vittime innocenti. Una sorta di allucinato e spaventoso teatro shakespeariano, da cui risorgono fantasmi amletici e macbethiani: “Ci minaccia ogni giorno l’incalzante terrore della materia. Come una lumaca stanca esco di casa per poter sentire vischiosa il mio viscidume e la bava che lascio sulla terra… Ma questi arti che finiscono con uncini non fanno che strozzarmi, incidono sui colli non i profili della collina ma i tagli crudeli degli eccidi mancati. Le forbici tagliano i monconi finali, ricostruisco le mani con i rami raccolti nel bosco”, Invecchiamo dimezzando i futuri: non siamo alberi. Belle decorazioni da giardino per uccidere le cavallette, quella corazza croccante che ci piace mangiucchiare tra pasto e pasto. E quando non mangiamo ci mangiamo. Madri con la bocca d’asino”, “Ma quanto territorio ci è caduto dalle mani, quanto corpo cade, e non ha porte e non ha chiuse, e non ha fine”, “e io mi perdo, si staccano i bordi delle cose”, “Questa testa che si frantuma nello spazio è ciò che voi dimenticate: non un morbo ma la verità dell’assenza di contorno”,Scorre un sangue come una frase nella gola, di bocca in bocca ascolto ripetizioni umane come fossero tracce di bestioline morte: un inverno con le zampe, un pesce senza sonno, un sordo avanzare di iene senza testa. Bussano nel cranio risposte fucilate dall’alto”.

L’implacabile montaggio di atroci fotogrammi che l’autrice colleziona, a rivalsa di un’ingiustizia patita, viene talvolta ammansito talvolta inasprito dalla reiterata richiesta di una risposta chiarificatrice, magari solidale, se non consolatoria, che tuttavia sembra destinata a non arrivare mai: dal mondo, da una figura protettiva e materna, o da se stessa.  “Ditele”, “diteci”, “dici”, “dice”, sono termini che continuamente riproposti implorano una parola, affinché non sia il tombale silenzio a sovrastare: “Ditele che ha innaffiato fiori finti, ditele che non fingo, ditele che i pianeti quando non cadono è perché cedono, ditele che nel pozzo non cadano bambini”, “ditele che il cuore ha scampo quando smette, ditele che tremo, ditele che ho un fiume sulla testa, ditele che rovistare non è una vergogna”, “ditele che la testa è piena, ditele che le uova non hanno cornice, ditele che l’insonnia è un’armatura per restare, ditele che la parola si misura in grammi e non in metri”, “ditele che la soglia è tutto questo vedere, ditele che il pianto non veste un cranio, ditele che la ruggine accade sull’umano, ditele che ho mani di caduta”, “La più triste scoperta è allora: poter non dire più nulla, non essere più nulla”, “Non dire smettila è come dire ancora. Non dire ancora significa: smettila”, “Hai detto tuo e volevi dire nostro. Hai detto nostro, volevi dire tuo”, “non sanno cosa sia l’urlo, mi chiedono di dire, di essere, di fare”, “Dice l’incendio della casa, una cimice morta calpestata sullo sterno. Dici vita e non dici niente, dividi in parti uguali la tua preda”, “Diteci che non è sempre un errore, diteci che il bene che diamo ci viene restituito, prima o poi”, “diteci che la vita può pesare meno, che la colla che ci tiene le braccia al suolo prima o poi molla la presa”.

Attraversando questa poesia dell’incomunicabilità, dell’infelicità, dell’impotenza, Mariasole Ariot, con il suo nome luminoso, cerca tuttavia lo scampo di una luce da scomporre e ricomporre anatomicamente, restituendone al lettore riflessi baluginanti: “Fare allora del proprio io miseria e non lago, terra cava che passa per il centro, paese meticcio a volte moribondo. Accettare il mondo morto, smetterla con le cantilene di ricerca, aprire libri a caso, estrarne foglie e donne, masticare una pagina dopo l’altra. Fare del proprio io il contrario dell’eccesso, eccedere solo per biologismi, avere un po’ di morfina nella dispensa, fare figli e ricordare sogni. Annotare i figli, uno ad uno mescolarli alle montagne, concedersi la confusione con l’ambiente”. E ancora: “Fare allora della domanda un’apertura, scatola cinese senza fondo che sfonda il titinnare dell’umano: passare senza possedere, mutare i corpi in corpi, aprire un varco per la terra: per un istante almeno farla finita con l’io”. Anche nel male, aprire alla possibilità di una sospensione del male, uscendo per un attimo dai propri confini di sofferenza, aderendo alla biologica autenticità di ciò che ci circonda.

© Riproduzione riservata                 «Il Pickwick», 19 maggio 2020