ALFREDO POLI, DI TERRA E DI CIELO – ALETTI, VILLANOVA DI GUIDONIA 2018

La vocazione tardiva alla poesia ha avuto per Alfredo Poli, insegnante veronese in pensione, senz’altro un significato terapeutico non solo nello scavo interiore di sé, e non solo nella ricerca intellettuale di un’espressione consona alla propria sensibilità, ma soprattutto nell’esigenza di rapportarsi agli altri per scoprire una comune partecipazione allo stare al mondo, “nel” mondo. Bene lo sottolinea Mario Allegri nella prefazione all’ultimo volume di Poli, Di terra e di cielo, citando questi versi che “accorciano le distanze e affratellano nella voce che vuol farsi voce di tutti”: “La mia voce / sia il silenzio / di chi ascolta / e di chi si ascolta. / E non sia sola / ma sorella a tutte quelle / con diritto di sogno, diritto di parola”.

Un’intenzione etica, quindi, quella che ha spinto l’autore a scrivere alcune delle composizioni più riuscite: intenzione che tuttavia non ha nessuna pretesa di conversione o di proselitismo nei riguardi di chi legge, ma si limita a decifrare il reale nella sua oggettiva durezza, auspicandone una trasformazione in senso positivo, di sospensione del dolore, di recuperata mansuetudine.

In una sorta di francescanesimo laico, Alfredo Poli esclude qualsiasi ricorso alla violenza e alla vendetta, da non usare nemmeno per riparare un torto o una prevaricazione: “pertanto abbiamo appreso: / anche l’odio contro la vigliaccheria / deforma i lineamenti; / anche la rabbia per l’ingiustizia / altera la voce”. La pietas è misura del rapportarsi al prossimo, e alla sofferenza di ciò che ci circonda: l’anziano malato (2° piano, Geriatria), la natura offesa (Rosa d’inverno, Fiocco di neve), il dissidio tra amanti (Incomprensione), la morte di un amico (Un altro addio).

In “questi tempi fatti di maschere / e di crepe nel cuore” ci sono momenti, episodi, incontri che tuttavia aiutano a superare la desolazione di un presente mortificante, e incoraggiano a uno sguardo positivo sul futuro. L’osservazione della bellezza di un paesaggio naturale (“Oggi gran festa nel giardino. / All’albicocco s’è aggiunto / il ciliegio in fiore”, “Nella luce calante della sera / le bianche lanugini dei pioppi / come un posarsi lieve ai ricordi”, “Trasparente mattino di sole / sopra queste colline d’erica / digradanti morbide al mare”), la corrispondenza di un affetto o di un amore (“Già del tuo sguardo sono grato / e dei silenzi che mi regali”), la lettura di una poesia (“Quella poesia / che hai scritto per me, / l’ho ricopiata fedelmente / su un pezzetto di carta / e l’ho nascosta / in una tasca segreta / del mio portafoglio”).

Alfredo Poli traccia un ritratto di sé che può sembrare rassegnato, o comunque malinconico, ma in realtà è animato dall’umile consapevolezza dei limiti di ogni creatura umana, riscattabile sempre attraverso l’anelito costante all’infinito, al superamento della contingenza: “Amo la mia finitezza: / fa da filtro ai sogni / e li alimenta”, “noi / che siamo / passeggere storie / senza traccia”, “Amo spesso sostare fuori / dai margini del sentiero”.

E in questa sua dichiarata marginalità rispetto al convulso e superficiale intrecciarsi dei rapporti umani, così spesso asserviti all’interesse e al potere, privi di gratuità e di sentimento, orgogliosamente afferma il suo originale rifiuto del conformismo, la sua discrepanza dal vuoto comunicativo oggi imperante: “Amo le parole semplici, / essenziali, appese / in precario equilibrio / alla profondità di senso”. Anche se questo differenziarsi può comportare il rischio dell’isolamento (“Respiro piano / ai margini della battaglia. / Solitudine è darsi alle paure / nel ritrovare un tempo perduto”), ciò che importa è rimanere consapevoli della propria unicità, nelle gioie e nei dolori che la vita ci dispensa.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Di-terra-di-cielo-Poli.html   3 settembre 2020