GABRIELA MISTRAL, CANTO CHE AMAVI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2010-2018

Prima poetessa latinoamericana a ricevere il Nobel nel 1945, la cilena Gabriela Mistral (Vicuña, 1889-New York 1957) ebbe un’esistenza ricca di passioni civili e avvenimenti eccezionali. Nata in una famiglia di modeste condizioni in un paesino alle pendici delle Ande, iniziò giovanissima a insegnare come maestra rurale, progredendo caparbiamente negli studi e nella professione fino ad assumere incarichi dirigenziali al Ministero dell’Istruzione, e in seguito a rivestire la carica di Console in diverse città europee e americane, sempre mantenendo vivo il suo interesse per le riforme scolastiche e l’impegno in favore delle classi sociali più indigenti e dei diritti delle donne. Non ancora quarantenne, aveva affermato di sé: “Sono cristiana e integralmente democratica. Credo che il cristianesimo, con il suo profondo senso sociale, possa salvare i popoli. Ho scritto come chi parla nella solitudine. Infatti sono vissuta molto sola dovunque. I miei maestri d’arte e di vita: la Bibbia, Dante, Tagore e i russi… Il pessimismo in me è un atteggiamento di malcontento creativo, attivo e ardente, non passivo. Ammiro, senza professarlo, il buddismo, che per qualche tempo conquistò il mio spirito… Vengo da una famiglia di contadini e sono una di loro. I miei grandi amori sono la fede, la terra, la poesia…”.

Proprio come poetessa ottenne molti riconoscimenti, pubblicando diverse raccolte (Desolazione, Tenerezza, Taglio del bosco, Torchio, Poema del Cile), in cui parlava di amore e politica, religione e femminismo, bellezze naturali e ingiustizie sociali. Il suo vero nome era Lucila Gogoy Alcayaga, ma aveva scelto lo pseudonimo di Gabriela Mistral in onore di due poeti da lei molto amati: il nostro Gabriele D’Annunzio, e l’occitano Frédéric Mistral, Premio Nobel nel 1904.

L’editore milanese Marcos y Marcos ha di recente ripubblicato un’antologia, Canto che amavi, che raccoglie testi dell’autrice cilena dai contenuti e dalle forme più differenziate, ma tutti animati da un’insopprimibile energia vitale, da un’esplicita volontà comunicativa, da una radicale esigenza di chiarezza stilistica.

Dalla sua famiglia di donne forti e indipendenti (la nonna ebrea, la madre abbandonata dal marito con le figlie ancora piccole, la sorella che l’aveva sempre incoraggiata e sostenuta nella carriera) Gabriela ereditò l’intraprendenza e il coraggio di opporsi alle convenzioni sociali e al maschilismo patriarcale del Cile del primo ’900. A loro dedicò versi di gratitudine e rimpianto, consapevole che all’universo femminile è spesso demandato di sopportare la fatica quotidiana dell’esistere, con la relativa delusione di un mancato riconoscimento affettivo, culturale e sociale.

Gli intensi e sofferti amori della sua vita (il fidanzato Romeo Ureta Carvajal morto suicida, la scrittrice statunitense Doris Dana a cui fu legata dal dopoguerra fino alla morte), furono raccontati in poesie appassionate, in cui dolore e dedizione assumono tonalità di struggente coinvolgimento: “Io ti stenderò in terra soleggiata con una / tenerezza di madre per il figlio dormiente, / e si farà la terra morbidezza di culla / accogliendo il tuo corpo di bimbo addolorato”, “Ti attendo senza limite né tempo. / Tu non temere notte, nebbia o pioggia. / Vieni per strade conosciute o ignote. / Chiamami dove sei, anima mia, / e avanza dritto fino a me, compagno”, “Mi son seduta a metà della Terra, / amor mio, a metà della vita, / apro le vene e il cuore, / mi schiudo in melograno vivo, / e rompo il mogano rosso / delle mie ossa che ti amavano”.

Sempre la morte aleggia come spettro ed emblema di irreparabile ingiustizia nelle sue composizioni: sia quella della madre (“Questa morte è stata per me una lunga e oscura sosta, un paese dove ho vissuto cinque o sei anni, paese amato per la presenza di mia madre, paese odiato per la lunga stasi della mia anima in una profonda crisi religiosa”), sia quella dell’amatissimo nipote Juan Miguel, uccisosi a diciassette anni.

Viscerale è l’attaccamento che Gabriela esprime per tutto ciò che la circonda: persone e paesaggi. Racconta dei campesinos sfruttati nei latifondi (“chi semina, chi irriga, / chi fa potature e innesti, / chi taglia e si accolla / sotto un sole di fuoco / anguria, viscera rosa, / melone che sa di cielo, ancora una volta, ancora / non ha un suo pezzo di terra”); di madri che allattano neonati denutriti (“Dai! Non è vero che tremi / come un Gesù Bambino / e che il seno di tua madre / si seccò di sofferenza!).

Descrive le distese di campi di mais (“Il santo mais s’innalza / in due impeti verdi, / e assopito si riempie / di tortore ardenti”), il mare rugghiante (“E morì il mare una notte, / da una riva all’altra riva; / si raggrinzì, si restrinse, / come un manto ritirato. // Come un albatros ebbro / o un animale in fuga, / fino all’ultimo orizzonte / con dieci ondate correva”), le montagne (“Quando sogno la Cordigliera, / le sue lunghe gole attraverso, / e di esse odo, senza tregua, / un fischio quasi un giuramento”), i fiumi (“Nella valle del Rio Blanco, / là dove nasce l’Aconcagua, / giunsi a bere, balzai a bere / sotto la sferza di cascata, / che cadeva fluente e dura / e si rompeva aspra e bianca”), l’Oceano (“Vedo alla fine del Pacifico / il mio arcipelago livido, / e un’isola mi ha lasciato / di alcione morto odore acido”).

Lo stile usato da Gabriela Mistral ovviamente muta nel tempo, adeguandosi ai contenuti trattati e alle varie influenze letterarie assorbite durante le lunghe permanenze in paesi stranieri: alla base della sua scrittura rimane comunque l’eredità della formazione culturale contadina, con i frequenti apporti sia di termini regionali e formule proverbiali, sia di simbologie tradizionali religiose. Il traduttore del volume edito da Marcos y Marcos, Matteo Lefèvre, nella nota finale così commenta la sua tecnica formale: “La poesia di Gabriela Mistral delinea un universo ritmico e metrico vario e complesso. La poetessa cilena spazia infatti da liriche che adottano o rivisitano metri tradizionali della lirica romanza (sonetto) a composizioni che invece mostrano un’architettura ritmica e un sistema di versificazione molto più articolato e originale”.

Il rapporto tra Gabriela e il Cile è stato sempre problematico e ambiguo. Fu spesso discriminata perché le sue poesie non corrispondevano ai criteri politici e culturali di una società ancora fortemente maschilista e conservatrice. Alla sua morte, avvenuta a sessantasette anni per tumore al pancreas, le sue disposizioni testamentarie non vennero rispettate, né per quanto riguardava la sepoltura, che avrebbe voluto avvenisse nell’amata città cilena di Montegrande, né per la donazione di una cospicua parte dell’eredità ai bambini poveri del quartiere in cui aveva trascorso l’infanzia.

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 4 settembre 2020