Il mio ragazzo, il mio Davide, è sempre stato un po’ particolare. Già da piccolo alternava momenti di immotivata euforia ad altri di ostile mutismo. Improvvisamente, diventava preda di una collera furiosa, e allora si scagliava con violenza contro tutto ciò che gli stava intorno: persone e oggetti. Altre volte si addolciva in una mansuetudine addirittura eccessiva, e per noi preoccupante, quasi a voler meritare la grazia di un perdono o di una ricompensa celeste. Capace di cambiare atteggiamento e natura nel giro di una sola ora, angelico e spietato. Ci eravamo rassegnati, io e suo padre, a questa mutevolezza ombrosa del suo carattere, che non esprimeva solo tra le mura domestiche, bensì anche a scuola, provocando sospetto e disappunto tra i compagni e negli insegnanti. I suoi bizzarri comportamenti infantili venivano giustificati da parenti e amici come effetto di un’educazione troppo arrendevole e indulgente da parte di noi genitori, che probabilmente avevamo esagerato nel viziarlo.
Comunque, lo stato di salute di Davide è rimasto gestibile fino alla preadolescenza. Intorno agli undici anni successe però qualcosa che gli stravolse i pensieri; un cortocircuito mentale, un’affezione emotiva paragonabile a uno sconquasso tellurico. Ero in cucina, preparavo gli agnolotti al ragù per la gioia di mio marito, in attesa del suo rientro dall’ufficio. Sentii un urlo arrivare dal bagno, e il mio bambino singhiozzare chiamandomi “mamma, mamma!” Mi precipitai da lui, e lo trovai seduto sul water, con i pantaloni della tuta calati sui piedi, il rotolo della carta igienica tra le mani tremanti, a riparargli gli occhi da una visione terrificante. Lo abbracciai tenendogli la testa appoggiata al mio ventre, come sempre facevo durante le sue crisi di rabbia. “Dido, tato, tesoro mio, cosa succede?” Scosso da acuti singulti, balbettava “schifo, schifo”, e poi “c’è il sangue, sangue bagnato”. Mi guardai intorno, pensando a un’allucinazione. Scorsi, semiarrotolato nel bidet, un mio assorbente macchiato di rosso, che avevo dimenticato di sigillare come sempre nella bustina di plastica opaca, gettandolo nell’immondizia. “Dio mio, cos’ho fatto!” pensai, conoscendo la fobia di mio figlio per qualsiasi traccia di secrezione fisica: muco nasale, saliva, orina, feci. Sangue, appunto. “Non è niente, caro. Non è proprio niente. Sono cose della tua mamma”, cercai di tranquillizzarlo. La sua disperazione aumentò. “Ti sei fatta male? Dove ti sei fatta male?” Piangeva inconsolabile. “Stai per morire? Devi andare all’ospedale?” Non ricordo come mi riuscì di calmarlo, raccontandogli quale bugia. Forse, che mi ero tagliata distrattamente un dito pulendo la verdura.
Non avevo mai parlato con Davide di sessualità, pensavo fosse un compito della scuola, oppure se ne dovesse incaricare mio marito. Gli avevo spiegato a grandi linee come nascono i bambini, senza addentrarmi nei particolari, e suscitando in lui un vago disgusto. Non gli avevo neppure mai accennato alle mestruazioni, e quando mi capitava di soffrire durante il ciclo, alludevo genericamente a un malessere passeggero. Ma da quel giorno, alla vista del sangue, anche solo in un film o riprodotto in un quadro, il mio ragazzo esibiva reazioni spropositate: nausea, tremori, attacchi di panico. Cominciò a prestare più attenzione alla pulizia personale, cosa insolita in un adolescente: si faceva la doccia appena sveglio e prima di coricarsi la sera, si lavava le mani in continuazione, e se la schiuma mista all’acqua gli sembrava appena un po’ grigiastra, mi chiamava a testimone: “Vedi quanti microbi, mamma? Bisogna distruggerli, i microbi…” Osservava minuziosamente la superficie dei mobili, se per caso si fosse depositata un po’ di polvere, e mi rimproverava: “Devi pulire di più, devi disinfettare i pavimenti, devi aggiungere la candeggina in lavatrice!”
La vita in casa nostra era diventata un incubo, e mio marito non riusciva a nascondere esasperati moti di stizza. Lo supplicavo di portare pazienza, di essere più comprensivo e affettuoso, ripetendogli che nostro figlio stava attraversando una fase complicata della crescita, ma senz’altro transitoria, come mi aveva assicurato il nostro medico di base.
Il fatto è che Davide, per suffragare scientificamente le sue teorie, aveva iniziato molto presto a consultare in internet testi di microbiologia, di virologia e di epidemiologia, sentendosi poi autorizzato a erudirci sulle cognizioni acquisite. I microbi, da cui era ossessionato, vennero ufficialmente riclassificati: “batteri, microrganismi unicellulari onnipresenti ovunque: nel cibo, nell’aria, nell’acqua, nei nostri corpi; batteri da cui tre miliardi di anni fa è nata la vita sulla terra, batteri che distruggeranno il genere umano, più potenti e letali di qualsiasi bomba atomica…”
Terminata con voti discreti la scuola media, ci sembrò scontata la sua richiesta di iscriversi all’Itis di biotecnologie sanitarie, un istituto privato innovativo, tenuto in grande considerazione nella nostra città. Mio marito fece presente al preside la particolare patologia di cui soffriva il ragazzo, una sorta di ipocondria che uno specialista aveva definito oscillante tra misofobia e rupofobia. Termini per noi astrusi, ma di cui diventammo subito molto competenti: paura delle malattie, delle infezioni, dello sporco, che costringe chi ne è affetto a mettere in atto riti di protezione morbosi e maniacali.
Fu garantita a Davide una particolare attenzione da parte del corpo insegnante, il permesso di occupare un banco da solo, di uscire spesso per recarsi al bagno, di sterilizzare con salviettine igienizzanti gli oggetti con cui entrava in contatto, e soprattutto di assentarsi dalle lezioni. Infatti i suoi disturbi lo costringevano a rimanere frequentemente a casa, in preda a tremiti, vomito, febbriciattole. Si chiudeva nella sua stanza, tappezzata da manifesti riproducenti vari tipi di virus, bacilli, cocchi, vibrioni, spore, procarioti (a bastoncino, a spirale, a grappolo, a catena, sferici, cubici), che io tentavo vanamente di imprimermi nella memoria, sperando in qualche modo di trovare la chiave per penetrare nel cervello di mio figlio. Stava lì, sdraiato sul letto, a contemplarli con lo sguardo fisso alla parete; oppure li riproduceva a matita su un quadernone, e poi li colorava con notevole estro artistico. Poi, per ore, rimaneva incollato al computer, a consultare Wikipedia o chissà quali altri manuali di medicina. Mi consolava il pensiero che, una volta uscito dal tunnel delle sue fissazioni, sarebbe potuto diventare un ricercatore universitario, un luminare di qualche branca scientifica, un biologo di fama.
La giovane psicoterapeuta che lo aveva in cura ci aveva esortato ad applicare nella nostra quotidianità alcune tecniche adattive, per indurlo gradualmente ad accettare minime tracce di contaminazione (negli oggetti di cui si serviva, nei vestiti, nell’arredamento), sottraendole a ogni temuta nocività. Seguendo le indicazioni della dottoressa, lasciavo apposta una forchetta incrostata tra le posate, dimenticavo di azionare lo sciacquone del water, non cambiavo i calzini e non lucidavo le scarpe. Ero arrivata addirittura a nascondere qualche capello nei cibi che cucinavo. Lui rispondeva ai nostri impacciati esperimenti in maniera sempre più violenta; sembrava quasi godesse sadicamente nel provocarci, per vedere quanto a lungo avremmo ancora sopportato la sua nevrosi.
Il primo a cedere fu mio marito. Stavamo pranzando, e Davide allontanava con la mano alcune briciole di pane sparse sulla tovaglia, pretendendo come sempre che lo spazio intorno al suo piatto rimanesse sgombro e immacolato. Rivolto a suo padre sentenziò: “Non è bello lasciare la mollica sulla tovaglia”. Poi alzò il bicchiere per osservare controluce se fosse pulito. “I germi si annidano dappertutto. Dobbiamo usare tutte le precauzioni per non ammalarci”. Parlava a slogan, come dovesse convincere un pubblico di analfabeti.
“Ti sei lavato le mani, papà? Ci si deve insaponare bene le mani, prima di mettersi a tavola”. Mio marito lo guardò severo, poi si alzò, si diresse verso il lavandino, aprì lo sportello della pattumiera e sollevò il secchio.
In silenzio, solennemente, rovesciò l’immondizia addosso a nostro figlio. Davide balzò in piedi. Aveva le spalle coperte di fondi di caffè e di bucce d’arancia, e un liquido giallognolo gli colava sulla fronte. Spalancò la bocca per gridare, ma non gli uscì mezza parola.
Suo padre gli piantò una manata tra le costole. “Eccoli, sono tutti tuoi: microbi, batteri e schifezze di casa nostra”. Poi prese la caraffa dell’acqua e gliela versò con imperturbabile lentezza in testa. “Adesso lavati, idiota”, proferì spietato e soddisfatto.
«Gli Stati Generali», 25 novembre 2020 e in «Gente normale», Eretica 2024.