ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020, pp. 338
La nuova edizione del volume Storia del Blues di Roberto Caselli, pubblicato con successo di vendite nel 2016, risulta arricchita di un’originale sezione dedicata alla produzione e diffusione italiana di questo genere musicale. Caselli è nome noto e stimato nel mondo della radiofonia e della letteratura specialistica: giornalista e critico, autore di numerose pubblicazioni (sul rock, sul jazz, sulla canzone italiana e su singoli interpreti, da Leonard Cohen a Jim Morrison, da Joan Baez a Paolo Conte), ha diretto diverse riviste ed è voce storica di Radio Popolare.
Il corposo volume illustrato edito da Hoepli consta di nove sezioni, suddivise in capitoli riassuntivi corredati non solo di vari box riportanti aneddoti, curiosità, citazioni, ritratti, commenti ai testi, suggerimenti discografici, bibliografici e cinematografici, ma anche di un’accurata datazione degli eventi fondamentali di ogni periodo storico preso in considerazione.
La scansione cronologica suggerita da Caselli offre la possibilità di seguire al meglio il percorso esistenziale di una musica che, nata dalla sofferenza e da secoli di repressione e schiavitù, è diventata veicolo di emozioni universali, in un viaggio entusiasmante che ha toccato luoghi, stili, interpreti diversi: “Il blues non è solo tristezza, è anche contrapposizione, piacere della trasgressione e dell’ironia con cui il nero si fa beffa dell’uomo bianco giocando sul suo stesso terreno”.
L’etimologia del nome sembra derivare, nella sua accezione più semplice, dal verbo “to be blue” (essere triste), ma potrebbe essersi in seguito arricchito di una sfumatura superstiziosa per la diffusa credenza negli spiriti maligni, quei blue devils che provocavano malattie, persecuzioni, morte. La musica del diavolo, come veniva comunemente definita, era considerata empia e dissacratoria perché non devotamente sottomessa ai dettami della Bibbia.
Il volume parte quindi da Mama Africa, capitolo che indaga le radici etniche da cui il blues ha tratto linfa originaria, per arrivare alla deportazione degli schiavi in America nel 1600 e al loro impiego come raccoglitori di cotone nelle piantagioni del Sud. Nato come canto di lavoro per accompagnare i movimenti cadenzati nei campi, questo genere musicale fu la prima forma culturale condivisa degli afroamericani; era caratterizzato da una struttura antifonale di dodici battute, e utilizzava inizialmente soprattutto la voce umana, in seguito strumenti a corda (chitarre, banjo) e armoniche a bocca, quindi ottoni e pianoforte.
Sia nei canti di lavoro, sia in quelli di protesta e nei gospel religiosi, si rincorrevano gli stessi temi indicanti paura, stanchezza fisica, preghiera, affetti familiari, nostalgia, ribellione. Con l’elezione di Lincoln, la fine della guerra di secessione (1865) e l’abolizione della schiavitù non ebbero tuttavia termine le persecuzioni razziali né lo sfruttamento dei neri nei lavori più pesanti, e il blues continuò a costituire una valvola di sfogo, imponendosi con orgogliose rivendicazioni di autonomia creativa. Negli anni ’20 fu caratterizzato dalla prepotente presenza di grandi interpreti femminili (Mamie Smith, Ma Rainey, Ida Cox e Bessie Smith), affermandosi lentamente come fenomeno di spettacolo e business redditizio. Film, musical, stazioni radio diffusero nuovi stili (classic, country, ballata), capaci di proporre temi sociali, spunti di cronaca, fantasie erotiche o puro divertissement, ricco di doppi sensi e battute scurrili. Le grandi migrazioni verso il nord lungo la Highway 61 che collegava New Orleans al Canada favorirono il diffondersi del blues verso Memphis, Chicago, Detroit, e improvvisamente queste metropoli divennero casse di risonanza di eccezionali artisti, come Robert Johnson, John Hurt, Fred McDowell. Texas, Lousiana, Kansas, California diedero impulso a suoni più vigorosi, attraverso contaminazioni con il jazz e lo swing, e con l’elettrificazione della chitarra: presto al blues si aprirono le porte dell’ufficialità, con esibizioni nei night club più esclusivi e in teatri prestigiosi.
Musica nera per eccellenza (B.B. King scriveva “Ho sempre sostenuto che suonare il blues è come essere neri due volte”), nella seconda metà del ’900 trovò epigoni bianchi tra gli interpreti del free jazz, del rock e del bebop. Eric Clapton, i Rolling Stones, Janis Joplin e lo stesso Bob Dylan hanno sempre dichiarato il loro debito nei confronti del blues, inglobando in esso elementi tradizionali e rinnovandoli con nuovi ritmi e strumentazioni.
Gli ultimi capitoli del libro di Roberto Caselli sono dedicati agli impulsi arrivati di rimbalzo negli States dall’Europa, al declino dell’interesse del pubblico occidentale negli anni ’90 e quindi a una recente rivitalizzazione capace di riproporre lo spirito originale della “musica del diavolo”, con tecniche strumentali spesso esasperate. Sdoganato anche da noi, molte sono le band e i solisti che si affermano oggi con un loro seguito di pubblico, appoggiati dal fiorire di festival e pubblicazioni specialistiche che ne sottolineano il meritevole valore. Tra gli interpreti italiani più rimarchevoli vengono citati Fabio Treves, Roberto Ciotti, Maurizio Angeletti, Guido Toffoletti, Rudy Rotta, Maurizio Pugno, Laura Fedele. Max De Bernardi & Veronica Sbergia. Amy Winehouse, con acuta sensibilità, ebbe a dire di questa musica dell’anima: “Ogni situazione di difficoltà è una canzone blues che attende di essere scritta”.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 14 gennaio 2021
ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020