EUGENIO MONTALE, DIVINITÀ IN INCOGNITO. Lettere a Margherita Dalmati (1956-1974) – ARCHINTO, MILANO 2020, pp. 116
A quarant’anni dalla morte di Eugenio Montale (1896-1981), le edizioni Archinto pubblicano le lettere inedite che il premio Nobel scrisse alla musicista e poetessa greca Margherita Dalmati, più giovane di lui di ventiquattro anni, tra il 1956 e il 1974. L’epistolario è stato recuperato ad Atene da Alessandra Cenni, che ha ora magistralmente curato introduzione e note del volume Divinità in incognito, in cui il lettore può scoprire non solo aspetti ignorati della biografia montaliana, ma anche particolari rilevanti della sua attività giornalistica e letteraria.
Margherita Dalmati, il cui vero nome era Maria-Nike Zoroyannidis – coltissima esperta di arte, profonda conoscitrice della storia e della letteratura italiana, traduttrice di Kavafis, Seferis, Elytis – considerava l’Italia sua seconda patria, soggiornando a lungo a Roma (per perfezionarsi nello studio del clavicembalo al Conservatorio di Santa Cecilia), a Firenze (dove al caffè delle Giubbe Rosse frequentava amici scrittori e pittori di fama: Luzi, Bigongiari, Gatto, Betocchi) e a Palermo, con l’incarico di lettrice dell’Istituto di Cultura greca e bizantina. Proprio nella città siciliana aveva incontrato per la prima volta fuggevolmente Montale, ma fu soprattutto il breve periodo trascorso insieme in Grecia nel ’62 che approfondì anche sentimentalmente la loro amicizia. Montale, accompagnato dalla moglie Drusilla Tanzi (la “Mosca” di Satura), allora già molto malata, era stato inviato ad Atene dal Corriere della Sera per una serie di reportage di viaggio, e aveva esplicitamente chiesto l’accompagnamento e la guida di Maria-Nike. Da quel momento lo scambio epistolare tra i due, precedentemente episodico e formale, si era intensificato: ci sono rimaste le 42 lettere di Montale, mentre quelle della Dalmati sono state distrutte, o dallo stesso poeta, o dalla sua fedelissima governante Gina Tiossi, probabilmente gelosa del fascino che la giovane donna esercitava sull’anziano poeta, e decisa a salvaguardarne la fedeltà alla moglie. Firmate spesso come Agenore (nome del mitico re fenicio di Tiro, padre di Europa) su carta intestata del Corriere, ci forniscono nuove chiavi interpretative sull’inattesa e sorprendente svolta creativa della maturità montaliana, avvenuta con la pubblicazione, dopo un lungo periodo di silenzio, degli ultimi tre libri caratterizzati dal passaggio dall’ermetismo a uno stile più prosastico, colloquiale e ironico (Satura, Diario del ’71 e del ’72 e Quaderno di quattro anni).
L’epistolario, inoltre, ci illustra il proficuo scambio culturale tra il poeta e la sua corrispondente, con il reciproco arricchimento derivato dalla collaborativa traduzione di Kavafis, con i riferimenti arguti agli scrittori contemporanei (Moravia, Pasolini, Quasimodo, Ferrata, Zampa, Spaziani…) e alla situazione delle arti e della musica in Italia (“la Scala è un grosso teatro inutile, incapace di formare artisti e legato a un repertorio che ormai sappiamo a memoria”).
Montale confessa il suo fastidio per gli impegni ufficiali e le cerimonie mondane cui deve presenziare, per la routine del lavoro giornalistico, per i progressivi disturbi dovuti all’avanzare dell’età. L’aperta confidenza che si instaura tra loro lo induce a sfogarsi anche sulla difficile quotidianità familiare, costretta tra l’invalidità della moglie e l’opprimente custodia della governante, “l’Erinni domestica”. Alla morte di Drusilla, il 24 novembre 1963, così scrive all’amica: “Margherita cara, spostare i mobili, prendere un cane, vedere amici, ahimè, mi servirebbe poco. Si tratta di 36 anni vissuti insieme nella
buona e nella cattiva sorte, venti dei quali occupati da una lotta eroica per vincere il male che covava, la cecità che progrediva, gli anni che crescevano, l’amministratore che la derubava e tutto il resto che non ti dico. 36, dei quali almeno venti di orrore; ed ora la fedele Gina che vive con noi da vent’anni, stesa al suolo in lacrime, incapace di prender cibo, con le fotografie della morta stese sul letto, sul suolo, dappertutto… Mi capisci?”.
L’amitié amoureuse tra i due dopo l’incontro ateniese era diventata più esplicitamente accesa e coinvolgente, fino a trasformarsi in un’approfondita intesa sentimentale, concretizzata in pochi incontri fisici, a Roma e a Milano, ma esplicitata dal poeta con accenti di reale devozione e gratitudine: “Ti voglio bene, Margherita cara, anche se questo mi spaventa… lasciami la speranza che un giorno potrò ripiombare in Grecia e sentirti almeno per un giorno, una notte intera, mia, tutta mia. Ti voglio bene, Maria Nike, ti amo (sono vent’anni che non scrivo una simile parola) e spero che questo mi ringiovanisca e mi faccia vivere a lungo, fino al giorno in cui potrò sentirmi unito a te anima e corpo per un istante o per un secolo” (19 maggio 1962); “Margherita mia cara e adorata… Io sono fedele per costituzione, anche se mi sono innamorato tre o quattro volte in vita mia (solo i morti non lo fanno), ma ora è davvero l’ultima volta ed anche se è l’ultima è la più preziosa e mi fa camminare un centimetro più alto del suolo… Ti abbraccio con tutto il cuore e con tutto il resto” (22 maggio 1962); “Mia adorata… Così come sei ora mi sembri adorabile e ti sogno la notte come Tristano poteva sognare Isotta. Con feroce desiderio” (2 giugno 1962); “My angel… Io ti posso solo dire che vivo con te ogni minuto e che la mia sofferenza mi aiuta tuttavia a vivere… ora tutto mi pare diverso, più incorruttibile, anche se non si svolge nella stratosfera e accende furiosamente il mio sangue!” (11 giugno 1962); “Mio caro tesoro… Ora che cosa posso aggiungere? Che ti voglio bene, lo sai; che ti amo, anche; che ti ammiro, anche; che ho per te una devozione senza limiti, anche; e allora? Ciò non toglie che io sia un fantasma senza esistenza fisica, senza direzione e senza bussola” (25 agosto 1962); ” Vorrei tanto poter abbracciarti ancora una volta prima di morire. Non ho mai conosciuto nessuno (nessuna) che ti valga. Non credevo di arrivare fino al 68: che me ne faccio del poco tempo che mi resta? Credo di averti detto tutto, mia carissima. Ti amo in modo inverosimile, inutile e non desidero nemmeno di rivederti. Sei come una di quelle stelle che gli astrofisici conoscono: io amo un raggio di luce che vedo appena al telescopio. Non meritavo nulla di più. Si può baciare una stella? Se si può ti mando un bacio lunghissimo, con tanta riconoscenza per la vita o il caso che mi ha permesso d’incontrarti. (22 novembre 1968); “Amo tanto la vita, ma più di tutto Maria Nike” (30 settembre 1969). Fino all’ultima lettera, scritta a settantasette anni: “Voglio dirti semplicemente una cosa. Ed è che TI AMO e che penso a te con infinita tenerezza. Mandami una tua fotografia: ne ho già una ma ne vorrei due. Ti abbraccio e bacio fin la punta dei tuoi piedi. Il tuo Agenore” (12 gennaio 1974).
Margerita/Maria-Nike non è Clizia, non è la Volpe, non è la Mosca: le donne più decantate da Montale ne Le Occasioni, ne La Bufera, in Satura; a lei dedica una sola poesia, Botta e risposta III, in cui è rievocato il viaggio in Grecia del 1962: “Ma ero pur sempre nel divino”, scrive. Una Divinità in incognito, questa giovane, riservata, comprensiva e solidale amica straniera, che con assoluta discrezione seppe offrire squarci di miracolosa felicità all’esistenza ormai fragilmente in declino del nostro più importante poeta novecentesco.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 12 marzo 2021