GIORGIO VALLORTIGARA, PENSIERI DELLA MOSCA CON LA TESTA STORTA
ADELPHI, MILANO 2021
Giorgio Vallortigara (Rovereto, 1959), professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento e docente all’Università del New England in Australia, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche internazionali e di volumi divulgativi di successo. Collabora inoltre alle pagine culturali di varie testate giornalistiche con articoli sul comportamento animale, e più specificamente sulla cognizione numerica e sulla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati negli uccelli, nei pesci e negli invertebrati.
Nel volume recentemente pubblicato da Adelphi, Pensieri della mosca con la testa storta, Vallortigara avanza una tesi originale, in controtendenza rispetto alle formulazioni più ortodosse della filosofia della mente. Tradizionalmente si riteneva infatti che la coscienza fosse legata alla quantità e alla complessità degli elementi del sistema nervoso, cioè che a un cervello più voluminoso corrispondesse una maggiore qualità intellettiva. Confrontando i risultati di studi recenti sull’attività cognitiva di organismi dotati di cervelli miniaturizzati (api o mosche, ad esempio) l’autore di questo affascinante volume afferma che anche gli esseri viventi più minuscoli sono forniti di facoltà basilari di pensiero, determinate dalla capacità di sentire e di muoversi.
Qualcosa ci accomuna, noi esseri umani dominatori del mondo, con le bestioline tormentanti che ci infastidiscono con il loro ronzio, le zampette pelose posate sulla tovaglia, le punzecchiature brucianti. Ovviamente non hanno la nostra intelligenza complessa, ma non sono prive di una loro specifica consapevolezza: sono infatti creature che hanno esperienza del mondo, creature senzienti che nel corso della storia naturale hanno incorporato alcuni semplici stratagemmi per risolvere problemi specifici atti a garantirne la sopravvivenza.
Un’introduzione e ventitré capitoli ci immettono, attraverso una scrittura sapiente e ironica, nell’universo minimo e immenso in cui si muovono bruchi, farfalle, mosche, lumache, ragni, formiche, pidocchi, scarafaggi, api… Che dalla legislazione europea non sono nemmeno considerati animali, e pertanto non vengono tutelati nel loro diritto alla vita. Eppure, “un’ape possiede nel ganglio encefalico novecentosessantamila neuroni. Con questo bagaglio limitato riesce a compiere prodezze cognitive” di discriminazione, navigazione e memoria spaziale, apprendimento e riconoscimento di luoghi e cose.
Gli imenotteri devono queste abilità ai corpi fungiformi posti nelle porzioni dorsali del cervello, che conferiscono loro strutture nervose associative in cui convergono le informazioni provenienti dalle vie sensoriali visive e olfattive, da utilizzare per riconoscere le fonti di cibo, allontanarsi e rientrare nel nido, intessere rapporti di socialità. Vespe e api (come succede ai nostri neonati e a molte specie di primati), sottoposte a diversi test di discriminazione, riconoscono le sagome delle facce (i due punti neri degli occhi e il taglio della bocca sottostante) prima e meglio di altre figure geometriche o di fantasia, a riprova della loro predisposizione all’interazione con gruppi sociali (le galline, sono addirittura in grado di ricordare centinaia di facce di esseri umani oltre a quelle di altre galline!)
Numerose e dettagliate sono le descrizioni di esperimenti di laboratorio riportati da Vallortigara per suffragare la sua ipotesi di partenza: se anche insetti dai cervelli minuscoli evidenziano componenti basilari dell’intelligenza sociale, forse questa dote non è stato il reale motore della encefalizzazione della specie umana. Il substrato più plausibile per l’insorgere delle abilità sociali va piuttosto ricercato in una caratteristica essenziale delle cellule: la capacità di sentire. Una capacità che si sarebbe manifestata per la prima volta quando, con l’acquisizione del movimento volontario, gli organismi elementari hanno avvertito la necessità di distinguere tra la stimolazione prodotta dalla propria attività e quella procurata dal mondo esterno.
È molto interessante, in questo volume, il continuo rapportare dati ed esperienze del mondo animale a quello umano. Sapere, ad esempio, che i cervelli delle varie specie aumentano di dimensione nelle aree dedicate a funzioni specializzate (quelle uditive per pipistrelli e delfini per finalità di eco-localizzazione; quelle della memoria per gli animali che fanno provviste di cibo, da recuperare poi nei nascondigli…). Forse per questo gli esseri umani, in relazione alla maggiore complessità dei loro rapporti sociali, hanno cervelli più voluminosi (1300 cc, con ottantasei miliardi di neuroni cerebrali, sviluppatisi circa 250.000 anni fa, a partire dal Pleistocene)? Eppure il numero massimo di individui con i quali possiamo mantenere relazioni interpersonali stabili, sembra limitarsi – per l’estensione della nostra corteccia cerebrale – a circa centocinquanta. La mosca Eristalis dal collo mobile che dà il titolo al libro, il grillo a cui si strappano le zampe, il paziente schizofrenico che ode le voci e avverte alterati i confini del proprio corpo, manifestano tutti un minimo comune denominatore di reazioni cerebrali quando vengono sottoposti a stimoli esterni.
Tante le cose curiose raccontate riguardo all’encefalo di animali ed esseri umani. Per esempio, chi sapeva che il nostro cervello costituisce appena il 2 per cento del peso del corpo, ma consuma il 20 per cento delle risorse energetiche dell’intero organismo, e che al suo interno il cervelletto, pur costituendo il 10 per cento della massa cere brale, contiene l’80 per cento di tutti i nostri neuroni? E chi l’avrebbe detto che quello della megattera pesa sette chili, mentre quello del delfino dell’Indo solo un etto e mezzo? Che pappagalli e corvi hanno un numero di neuroni che è circa il doppio di quello di scimmie di peso simile? A dimostrazione che non esiste correlazione tra la grandezza dei cervelli e la loro sofisticatezza cognitiva, l’autore afferma: “cervelli piccoli, in termini di numero assoluto di neuroni, possono comunque funzionare bene se hanno dei vantaggi circuitali rispetto ai cervelli grandi, dotati di un maggior numero assoluto di neuroni”.
Il surplus di neuroni dei grandi cervelli pare non abbia nulla a che fare con l’elaborazione delle informazioni: i neuroni “che avanzano” non servono per il pensiero, sono lì invece per la pura gestione delle memorie. Oggi gli scienziati discutono se la grandezza del cervello risponda allo sviluppo di competenze specializzate, che si sono affinate nel corso di molto tempo, o se il cervello abbia a disposizione molto più materiale del necessario, per consentire il mantenimento di una buo na funzionalità cognitiva in età avanzata (generosità verso i nonni!).
Ma la domanda più intrigante che l’autore si pone è su quando e come sia nata la coscienza nelle creature viventi. Pare ormai certo che le cellule nei corpi primordiali abbiano iniziato a produrre una risposta localizzata, reattiva a uno stimolo esterno nocivo, attraverso due diverse modalità: la sensazione, che accade all’interno dell’organismo, e la percezione che accade all’esterno, distinguendo tra la stimolazione autoprodotta dall’attività del proprio sé e quella che gli viene invece procurata dal resto del mondo, dal non-sé. La percezione di uno stimolo esterno (una luce, un odore, una minaccia climatica), producendo una sensazione di protezione o di espansione dentro la cellula – a seconda che venga avvertita come pericolosa o benefica –, la induce a reagire modificando il suo stato corporeo, e attivando un movimento. “Per avere il genere di movimento attivo che renda possibile ‘sentire’ la stimolazione è necessario disporre di un distinto sistema recettoriale che agisca su un distinto sistema motorio. Ci vogliono insomma neuroni e muscoli”.
Le forme essenziali del pensiero, già dagli albori della costituzione dei cervelli, sono quindi le stesse in tutti gli organismi animali, nella loro manifestazione immediata e implicita, necessitando di un numero modesto di cellule nervose; e si sono perfezionate nell’arco di millenni più per quantità che per qualità.
Concludendo la sua avvincente narrazione, Giorgio Vallortigara espone (con la modestia di chi pone quesiti senza avere la presunzione di avere raggiunto una verità definitiva e incontestabile) la sua convinzione: che la coscienza non sia misteriosamente emersa solo al raggiungimento di un certo grado di complessità del sistema nervoso, come si è ritenuto comunemente finora, ma che “semplici computazioni condotte da poche, umili e umide cellule” le abbiano fornito un substrato plausibile nella sua manifestazione essenziale: la capacità di sentire e di avere esperienze.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 30 marzo 2021