ERMES DORIGO, LE CENERI DI PASOLINI – CAMPANOTTO, UDINE 1994

Ermes Dorigo è una voce nuova e diversa nella cultura friulana di questi ultimi anni: appassionato organizzatore di convegni in Carnia, divulgatore e tenace mentore di tradizioni alpine, polemico pubblicista e critico. Oltre a ciò, Dorigo è narratore e poeta in proprio, e in quest’ultima veste ha recentemente pubblicato un volume di versi, Le ceneri di Pasolini, che, a quasi quarant’anni dal libro pasoliniano dedicato a Gramsci, tende a recuperare la tensione ideologica e la forza d’urto di quel testo. Intendiamoci, Dorigo è abissalmente lontano dalle scelte formali di Pasolini: non troviamo in lui la terzina classica, né lo stile retorico-celebrativo dell’altro. Il suo discorso è più franto e tormentato ideologicamente, e si riflette in una forma molto accanita, più giocata e “astuta”, nel senso che conosce e sa sfruttare tutti gli apporti poetici di questi nostri ultimi decenni (da Sanguineti ai neodannunziani). Eppure c’è anche qui indignazione morale: «Secolo agonizzante, ora che tremi / la tua fine e con livido sguardo / delirante brami la fine / dell’altro, ringhiando la vittoria / sul tu solidale, dal seme di morte / che ti ha generato educhi / il male e una velenosa bava / spargi di follia e di lutto: / morto tu, dio, morto tutto?)», con l’aggravante di una disperazione – cioè, proprio, di una non-speranza, di una consapevolezza della vanità di ogni resistenza politica – che Pasolini, alla fine degli anni ’50, non conosceva. Pasolini padre, quindi, e Pasolini patrigno, amato e contestato («come / una collazione di urla / mute, inespansa virtute / vedevi la verità: / ma era vera?»), insieme ad altri riferimenti mitici, paterni, della nostra tradizione letteraria, quali Paolo Volponi, cui Dorigo attribuisce un secondo, affettuoso omaggio in versi.

C’è, in questo volume di Dorigo, un intenso, straziato richiamo all’eros, molto diverso rispetto a quello che Pasolini ci lasciava intuire ne Le ceneri di Gramsci: là timore e tremore, adorazione religiosa del corpo, qui dissacrazione del sesso, svelamento impudico, genitalità espressa come in un basso continuo e ossessivo. La sezione Raphaela, la più violenta e febbricitante del libro, presenta, accanto a versi di indubbia valenza erotica («Ma come guizzerebbe la mia trota / nella tua mano ignota con perle di latte arcano»), in qualche modo sciolti e appagati nel desiderio soddisfatto, presenta dunque un angosciante turbinio di riferimenti espliciti, assillanti ed esagitati nella loro consapevole oscenità. Al punto che lo stesso Dorigo sembra averne paura, e tenta esorcismi che riducano la carica sensuale dei suoi versi, smorzandone l’ebbrezza attraverso giochetti linguistici, scioglilingua, che in realtà finiscono per risultare elementi di distrazione piuttosto datati: «che porco / questo mio corpo / che copro d’un poco di croco!» . Lucido com’è ideologicamente, indubbiamente abile nella costruzione formale, quando non permette alla sua vitale tensione poetica di annacquarsi, e la mantiene vibrante e tesa, Dorigo ci regala versi importanti, importanti turbamenti.

 

«Zeta News», n.31/32, gennaio-febbraio 1995