GIOVANNI GIUDICI-VITTORIO SERENI, QUEI VERSI CHE RESTANO SEMPRE IN NOI
ARCHINTO, MILANO 2021
La prima tra le quarantotto lettere raccolte nell’epistolario edito da Archinto, Quei versi che restano sempre in noi, era stata scritta da Vittorio Sereni a Giovanni Giudici nella primavera del 1955. L’ultima, sempre da Sereni, il 20 aprile 1982. Un carteggio durato quasi trent’anni, a cementare un’amicizia partita in sordina e in maniera piuttosto convenzionale (fino al 1960 i due poeti si diedero del lei, anzi, del “Lei”) e via via diventata sempre più solida, sincera, fraterna.
La curatrice del volume, Laura Massari, nella prefazione definisce in questo modo il sodalizio tra gli autori: “due poeti così diversi, che si trovano a vivere a Milano al principio degli anni Sessanta: sfuggente nella sua elegante e malinconica profondità l’uno, timido ma presente nella sua irruenza impegnata con la storia e con la vita, l’altro”. Sereni, nato a Luino nel 1913, e Giudici, nato a La Spezia nel 1924, avevano fatto di Milano la loro seconda casa. E proprio alla Milano dei poeti dedica la sua nota conclusiva il Professor Edoardo Esposito, sottolineando quanto il capoluogo lombardo si sia prestato nel dopoguerra ad accogliere e nutrire voci e scritture diverse, favorendo intensi momenti di aggregazione e collaborazione culturale, dibattiti e scontri ideologici accesi, opportunità di pubblicazione su importanti quotidiani e riviste letterarie, incarichi all’interno di case editrici piccole e grandi.
Sereni e Giudici avevano inaugurato la corrispondenza proprio in virtù di uno scambio di pareri sulle rispettive produzioni edite e inedite, offrendosi reciproche occasioni di commenti critici, recensioni e traduzioni, e manifestando sempre vicendevole stima e rispetto, pur nella diversa valutazione di cosa significasse scrivere in versi. Il più dibattuto tra i tanti argomenti affrontati dai due intellettuali era appunto il ruolo rivestito dalla poesia nella cultura e nel mercato librario, la sua origine e destinazione, la sua funzione e responsabilità sociale e politica. Più scettico Sereni riguardo a una finalità concreta e misurabile della parola poetica, più entusiasticamente convinto di un suo compito etico Giudici. Che così rispondeva al diffidente pessimismo dell’amico, ribadendo l’importanza “di una scelta ideologica, di una scelta morale preventiva”: “Se non mi sostenesse l’illusione che i miei versi riescano in qualche (vicino o lontano) momento a incidere nel corpo della storia, a mutare in misura infima la storia del mondo, avrei già smesso di scriverli…”.
Vittorio Sereni, più legato a una dimensione interiore della scrittura, temeva e rifiutava qualsiasi sua intenzionalità didascalica, volontaristica, edificante: “Non ho mai pensato che la poesia potesse aiutare a cambiare, tantomeno a cambiare, qualcosa attorno a noi. Penso al massimo che immetta qualcosa in te o in me o in un terzo, in una piccola folla di terzi; che aggiunga o tolga qualcosa nella vita emotiva di questo o quello”.
L’irrinunciabile sguardo che Giovanni Giudici volgeva, con ironia e autoironia, al reale, alla cronaca, alle motivazioni psicologiche del proprio agire, trovava nella disincantata amarezza, nella perplessa esitazione di Vittorio Sereni uno stimolante motivo di riflessione, che rinsaldava in entrambi la fiducia nella natura essenzialmente comunicativa della poesia, contro il contingente prevalere della neoavanguardia letteraria, concentrata su un estremizzato sperimentalismo linguistico. Tutti e due si dichiaravano determinati a difendere “il buon gusto in letteratura”, temendo di venire persuasi al silenzio, “ammutoliti di tristezza” dalla “babele dell’orda”, quando “fra qualche anno scrivere una bella poesia avrà (non solo praticamente, ma ahimè storicamente) ancor meno valore di oggi”, secondo l’amara profezia espressa da Giudici nella lettera del 24 febbraio 1963.
© Riproduzione riservata 7 settembre 2021
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