FRANCESCO SCARABICCHI, LA FIGLIA CHE NON PIANGE – EINAUDI, TORINO 2021
Nella quarta di copertina, vengono così presentate le poesie comprese in questa raccolta einaudiana, purtroppo postuma, di Francesco Scarabicchi (Ancona 1951-2021), intitolata La figlia che non piange: “Il lirismo sommesso ed essenziale tipico del poeta marchigiano è qui al servizio di un libro testamentario in cui il poeta fa pacatamente i conti con la fine della vita, avvertita ormai come imminente. Senza mai indulgere al pathos, attenendosi a quella sobrietà linguistica, a quel «monachesimo lessicale», come scrisse Enrico Testa, che chi ha letto Il prato bianco e gli altri suoi non numerosi libri ha imparato a interpretare come indicazione etica non meno che come scelta stilistica”.
Libro testamentario, dunque, malinconicamente teso nella consapevolezza di una fine ormai prossima, ma nello stesso tempo proteso generosamente verso un futuro che non riguarderà chi l’ha scritto, ma gli altri, tutti gli altri: i cari più amati, gli amici degli anni giovani e i sodali del tempo più responsabile, i poeti letti, i pittori ammirati, e insomma ogni vivente che respira e si muove intorno, insieme alla solidità consolante e protettiva degli oggetti, delle case, dei paesaggi. Così si alternano considerazioni sul passato irrecuperabile, e su un domani riservato a chi sopravvivrà:
“Sarò puntuale quando sarai notte, / starò dalla tua parte a ravvisarti / gli anni di molte insonnie e passi calmi. / Avrò quel viso che non so di avere, / dirò parole appena per fermarti / sull’unico confine che scompare”, “Si decida il contabile del tempo / a restituirci gli anni non vissuti, / tutti i sogni, le cose, / i persi sguardi, / le idee che vanno, veloci, a scomparire”.
La prima quartina del memorabile sonetto petrarchesco (“La vita fugge, et non s’arresta una hora, / et la morte vien dietro a gran giornate, / et le cose presenti et le passate / mi dànno guerra, et le future anchora”), insieme al “fugit inreparabile tempus” virgiliano, vengono ripresi da Scarabicchi in classicissimi endecasillabi: “Dalla parte del tempo passa il mondo, / dai suoi sentieri ignoti, dalle strette / vie degli istanti che non torneranno”, “ad ogni passo se ne vanno i giorni”, “Ah, il tempo che passa alle mie spalle, / sulle mie scarpe nuove, sulla pelle”, “Come scompaiono veloci gli anni, / come portano doni ad ogni giorno”, “Ore degli anni che ti lasci indietro, / minuti d’ogni epoca che è stata”.
Ma non è l’unico argomento, lo scorrere dei giorni e l’avvicinarsi del tramonto, a essere affrontato dal poeta: ci sono versi civili, irosi contro un’Italia scaduta politicamente e socialmente, contro “questo adesso inerme”, che fa rimpiangere “un sogno infranto, un’utopia perduta”. Anche le scelte formali sono varie, diversificandosi tra brevi prose ritmiche (“L’esito di un’attesa”), modulate in endecasillabi o quinari mimetizzati narrativamente, allineati senza andare a capo. O tra serie di acrostici dedicati al nome di un amico, e ai giorni della settimana. Ancora, altri distici riassumono specifici caratteri dei dodici mesi e delle stagioni, indicando quanto il tempo e la sua scansione cronologica siano un tema fondante di tutta la raccolta: “Autunno: È una quieta bellezza a dominare / l’intero mondo, i campi, le colline”, “Ottobre. Mese del mosto e del pane di vino, / vendemmia delle ore e del conforto, // lume di tempo quieto del destino, / nome dell’umiltà, bosco, cammino”.
La scelta del metro e del lessico, così piani e cantati, rientrano nella nostra più collaudata tradizione elegiaca, riecheggiante magari alcune atmosfere di Sandro Penna, ma volutamente straniate nella proposta di termini desueti, antichi (m’aggrada, lasca, contrada, s’avvera, duole, compìta). Sulle orme leopardiane, poi, silenzi, spazi infiniti, colline, orti, vento, luna, notti, sono un tacito e discreto invito alla meditazione, all’abbandono di sé per naufragare in più alti spazi: “Cala piano la sera e tutto intorno” …
È il bianco il colore che prevale in tutta la raccolta, quello del sogno e della neve, come nella dolcissima silloge celebrante appunto la Nevicata: “Nessun passo su tanto candore, / nessuna orma ignota”.
Alla verità filtrata dai suoi versi (“la verità invisibile del mondo”), Francesco Scarabicchi ha affidato non solo la possibilità di continuare a vivere nel ricordo altrui, ma anche la capacità di interpretare il reale, e ciò che lo supera: “la pagina / e poi quelle formiche delle righe / a dire il poco, il molto che noi siamo”. Poco e molto, il suo essere poeta mite, dallo sguardo stupito e mai recriminatorio, cantore di memorie e nostalgie che raccontano la bellezza di “un vivere smilzo e con la corda corta”, lì dove si nasce e muore: “Scegli il crepuscolo o l’alba, visita il regno. Del privilegio che ti tocca in sorte non farne mai parola a anima viva”.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 22 ottobre 2021