SILVIA BRE, LE CAMPANE – EINAUDI, TORINO 2022
Più denso e concentrato, più meditato formalmente e ricco di tensioni emotive di quanto non siano le ultime pubblicazioni apparse nell’einaudiana collana bianca di poesia, l’esile volume di versi di Silvia Bre (Bergamo, 1953), pluripremiata poeta e traduttrice soprattutto dall’inglese, si presta a svariate intuizioni critiche. A partire dal titolo, Le campane, che nel rimando a un’immagine tradizionalmente benevola e innocua, quasi da sagra paesana, stride sia con i temi inquietanti, sia con l’ordito linguistico oscuro, avviluppato, del testo.
Costante è il richiamo al senso dell’udito, nell’inventario dei termini ad esso connessi (suono, canto, silenzio, ascolto, voce, orecchio, corda vocale, musica, note, rintocco, ritmo, cori, assoli, rumore, mugolio, rimbombo…). Altrettanto presente l’organo della vista, con i fulminei passaggi tra buio e luce, splendore ed eclissi, trasparenza e opacità. Il contrasto, visivo e uditivo, ha una sua motivazione nella presenza-assenza, vicinanza-lontananza, fatticità-astrattezza del mondo che ci ospita, e da cui siamo contemporaneamente espulsi verso spazi interplanetari abissali, verso tempi oscillanti tra passato remoto e futuro insondabile, con scarsa evidenza del momento presente.
Così, nelle grotte di Chauvet, le pitture parietali risalenti al Paleolitico, primo esempio al mondo di arte preistorica, si propongono come battesimo dell’atto gratuito, di apertura all’eterno. “È l’origine”, elementare desiderio di oltrepassare i limiti della finitezza materiale, proiettandosi in un altrove disincarnato: istintuale, arcaico germe di poesia. La storia si definisce appunto nella consapevolezza di quanto ci ha preceduto e di quanto ci sopravviverà: “discendere da loro / in un destino // nel fumo // negli spazi // essere stati il futuro di qualcuno”.
Dal passato millenario in cui si muoveva l’homo sapiens, alla relatività einsteiniana, fino alla proiezione di un antropocene sconosciuto, in questo rincorrersi delle epoche indifferenti a chi le abita, si schiude uno spiraglio di consistenza umana, il pensiero primordiale della creazione poetica: “Anche ora s’incrina una fessura / tutto il cosmo che passa è / metallo fuso, un ritratto tanto uguale a qualcosa / che mi esalta, creare un gorgo e poi esserne inclusa”. La voce della poesia è sempre testimoniale, “porta incisa una malora / e una resurrezione astrusa”, “l’ambizione incendiaria” di lasciare un segno: “Mi si dica, lo chiedo in ginocchio, / dica qualcuno in tempo che c’è una figura, un’ombra / un gesto di pietà da offrire a un altro / a chiunque, e qualcuno lo ha fatto o lo farà / in un tempo astrale senza saperlo”. Tra la consapevolezza della fragilità della parola, della sua probabile inutilità, e la speranza di servire (a qualcosa, a qualcuno: pronomi indefiniti che si ripetono, proprio a rimarcare l’assenza di un destinatario esplicito), si pone la figura del poeta, presenza gratuita e misconosciuta, ma forse salvifica: “Non sono mai nessuno i poeti – / nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria / pugnalano in lingue il lontano. / Poi l’aurora”. Dicono cose artificiose, eppure indicano una necessità: “tu, meraviglia, / perché ti riconosco, sbandieri / che divampa su tutto, il ritmo antico del tutto”.
Le campane, dunque, diventano metafora di un annuncio di verità, che solo la parola poetica può formulare. È un appello, sebbene monco, imperfetto, che non ha il rilievo e il prestigio della parola politica o filosofica: si accontenta del suono: “dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore, / è un’altra l’unità da pronunciare, ebete, / e non sai quale, non sai farlo”; “da qui si scorge la belva che esiste per sparire / e guarda in verticale, riempie di salti, di verbo / il frammezzo tra sole e terra, la cogli nell’arco siderale / che è l’amore sfinito per i giorni, / nell’opera che resta inconclusa a fissare l’eterno”.
Silvia Bre nella sua scrittura compressa, elusiva e allusiva, ammette con impudenza la propria difficoltà di farsi ponte tra l’essere e il dire, nonostante sappia servirsi anche di stratagemmi tradizionali, come rime, anafore, endiadi, metonimie, ecc. Rimane enigmatica persino quando si misura con il concreto, con il “mosaico di dolore” dei migranti morti affogati, o della sua città natale, Bergamo, devastata dalla pandemia.
L’oscurità eraclitea del divenire fa di lei una messaggera del transeunte, “profeta dell’inaccessibile con la voce di cera”, la cui misteriosa verità va sviscerata, sgomitolata, per scongiurare che il rintocco lontano delle campane sia un funereo presagio del nulla a venire.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 1 marzo 2022