GERARD MANLEY HOPKINS, POESIE 1875-1889 – EINAUDI, TORINO 2022
Un volume fondamentale, quello che Einaudi dedica a Gerard Manley Hopkins (Stratford 1844-Dublino 1889), con una dettagliata ricostruzione biografica, un puntuale commento interpretativo, una ricca dotazione di note e un’esaustiva bibliografia della curatrice Viola Papetti, che ha tradotto le poesie con elegante perizia. Compito non facile, perché la scrittura di Hopkins non è immediatamente approcciabile, sia nei temi (che spaziano dalla teologia, alle scienze e alla storia) sia nella forma, audacemente sperimentale nella sintassi, innovativa nelle scelte lessicali, nella metrica e nell’accentuazione. Ricco di allitterazioni, anacoluti, paradossi, fonosimbolismi, contrappunti ritmici, parallelismi, in una continua torsione stilistica ottenuta attraverso l’omissione di nessi logici e grammaticali e l’accumulazione di senso, lo stile di Hopkins è pienamente rivelatore della sua inquietudine intellettuale e della tensione emotiva con cui partecipa, in gloria e in penitenza, alla celebrazione di Dio e del creato: “not live this tormented mind / With this tormented mind tormenting yet”. Un esempio dell’estrema modernità linguistica del poeta gesuita, possono darlo questi versi tutti giocati sul suono spesso indipendente dal significato, sull’onomatopea, sulla ripetizione vacua e martellante delle sillabe: “Or a jaunting vaunting vaulting assaulting trumpet telling”, “Whorlèd wave, whelkèd wave, – and drift”, “Fallow, foam-fallow, hanks – fall’n off their ranks”, “And the sunlight sidled, like dewdrops, like dandled diamonds”, “A wíndpuff-bónnet of fáwn-fróth”, “Pitched past pitch of grief”…
La sua produzione comprende una cinquantina di poesie complete (più una ventina di frammenti e abbozzi di liriche), diversi saggi di critica letteraria e di musicologia, pagine di diario e un epistolario, ma rimase inedita fino al 1918, quando il suo vecchio compagno di studi Robert Bridges, “poeta laureato” da Giorgio V, pubblicò una vasta scelta di versi, ampliata successivamente in diverse edizioni. Apprezzato da Pound ed Eliot, dai nostri Montale, Bertolucci, Giudici e Raboni, ottenne solo nella seconda parte del ’900 il meritato riconoscimento letterario a livello internazionale.
Beppe Fenoglio, che lo aveva tradotto, ne parlava con ammirazione: “È arduo poeta. Concorrono a formare questa sua monumentale difficoltà la peculiarità della sua ispirazione, la sua cultura esoterica e il suo stile. Uno stile da splendido isolato, da artista senza maestri e senza allievi. Sfrenata, oseremmo dire libertina, è la fantasia di questo gesuita”. E nell’appendice al volume einaudiano, un intervento di Giorgio Manganelli sui poeti cattolici inglesi dell’ottocento, riporta diciassette penetranti righe dedicate a Hopkins, poeta “non da amare ma da temere” per la sua “verticalità atroce”, per il “linguaggio estatico ed abbagliante… oscuro non torbido”, che ha “qualcosa di immite com’è della ferina geometria del barocco, anche nelle sue dolcezze”.
Gerard Manley Hopkins, primo tra otto figli di una colta e ricca famiglia di assicuratori marittimi, ebbe un’educazione scolastica di prim’ordine, nella severa Highgate School di Hampstead, e quindi a Oxford, nel collegio di Balliol, dove si perfezionò in studi classici e filosofia, seguendo tuttavia soprattutto i suoi interessi religiosi. A ventidue anni si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo, entrando due anni dopo nella Compagnia di Gesù, scelta avversata dalla cerchia parentale, dei docenti e degli amici intellettuali. Dopo un rigido noviziato, nel 1877 fu ordinato sacerdote e destinato sia all’insegnamento sia al servizio in diverse diocesi: Londra, Oxford, Liverpool, Glasgow, fino alla poco amata destinazione finale di Dublino, dove ebbe l’incarico di professore di letteratura greca e latina presso il college cattolico della Royal University of Ireland. Eccentrico, ansioso, sensibile, gentile, non riscuoteva molto successo né tra i fedeli durante le omelie, né tra gli allievi, mettendo a dura prova la sua salute con l’impegno indefesso negli studi letterari e musicali, nell’insegnamento, nelle pratiche ascetiche perseguite con intransigenza. Morì a quarantacinque anni di febbre tifoide, bruciato nella fragilità fisica da un implacabile fuoco interiore, “ossessionato dal tema dell’Essere e della fine dei tempi”.
La poesia di Gerard Manley Hopkins ruota intorno a tre temi fondamentali: Dio, la bellezza, il peccato. Nel peccato, inteso come disarmonia spirituale, arbitrarietà di giudizio, irrequietezza spirituale, riconosce se stesso, creatura effimera e fallace, in versi frantumati e assillanti, esplorativi del conscio e dell’inconscio: “Anima, io; su, povero me, ti consiglio, / tu, stremato, smetti; svia i pensieri per un po’ / altrove; libera la radice del conforto; gioia cresca // dove Dio sa quando fino a quanto Dio sa”; “faticosi i giorni, i compiti; / cedere, farsi disarcionare, e obbedire, // … Sentiamo il nostro cuore contro se stesso stridere; uccide / schiacciarlo anche più fieramente”; “Quella notte, quell’anno / d’ora terminata tenebra io sciagurato giacqui lottando / con (mio Dio!) mio Dio”. Suppliche e maledizioni che ricordano i più angosciosi salmi, le tenebre in cui si dibattevano i mistici medievali, i cilici e le mortificazioni degli ordini flagellanti, l’ardore dei sonetti di Donne.
La divinità è percepita soprattutto nella formula trinitaria: un Dio padre severo, roccioso, che ammonisce e castiga sullo sfondo di una natura ostile, di tempeste, naufragi, deserti. Il Figlio è invece redentore, dolcezza del perdono e umiltà del gesto riparatore, consolazione: “Cristo cura: l’interesse di Cristo, cosa c’è da accettare / o emendare / li guarda, vuole col cuore, con zelo incalza, col piede / segue gentile, / loro riscatto, loro riscossa, e primo, fermo, ultimo amico”. Lo Spirito è alito di grazia, purezza di colomba, sollievo edificante: “lo Spirito Santo sopra il curvo / mondo cova con caldo petto e con ahi! luminose ali”.
La bellezza, infine, è un riflesso del bene e della libertà spirituale proposta dalla parola evangelica, traccia dell’apparizione numinosa del divino, emozione epifanica. Le onde del mare, la campagna del Galles, una conchiglia, la bambina Margaret che piange, i fringuelli, le trote, la notte stellata, tutto ciò che (“acquatico e selvatico”) si offre all’occhio estasiato, all’orecchio vigile: “Tutte le cose contrarie, originali, frali, strane; / quel ch’è instabile, lentigginoso (chissà come?) / con lesto, lento; dolce, amaro; abbagliante, torbo; Egli pro-crea la cui bellezza mai muta: / lodatelo”. “A che serve la bellezza mortale?”, si chiede in una poesia, così rispondendo: “tiene calda / l’intelligenza dell’uomo alle cose che sono; a quanto / significa il bene”.
Poiché “Il mondo è carico della grandezza di Dio”, anche il male trova una sua giustificazione nella storia umana, per quanto ingiusta e crudele. Nel famoso poema in ottave di trentacinque stanze Il naufragio del Deutschland, scritto in memoria di cinque suore affogate nell’inabissamento di una nave a vapore il 7 dicembre 1875, l’evento drammatico si trasforma in parabola, indicando il contrasto tra la potenza di Dio – creatore e distruttore – e la fragilità dell’uomo, la cui sofferenza diventa viatico per la salvezza.
La poesia di Hopkins conosce uno sviluppo contorto e doloroso, seguendo i sentieri di una fede continuamente rimessa in discussione: avvampa di improvvisi esaltati bagliori e si incupisce nel dubbio, nel rifiuto e nella disperazione. Le ultime composizioni, i celebri “sonetti oscuri”, esprimono timore e tremore nell’avvicinarsi della vecchiaia (“My winter world”), rassegnazione (“placo / qui le mie tempeste, il fuoco e la furiosa febbre”), e delusione, rimpianto, solitudine, abbandono: “L’uccello nidifica – ma io no; no, e mi sforzo, / eunuco del tempo, e non produco un’opera che viva”.
Viola Papetti, nel suo davvero lodevole lavoro di curatrice e traduttrice, afferma che le “poesie impervie e imperative” di Hopkins dimostrano quanto egli sia stato “incessantemente poeta, teologo, linguista”, in maniera tale che nessuna delle tre funzioni prevale sulle altre, ma insieme compenetrate danno linfa a una delle voci più singolari e intense della letteratura inglese.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 19 aprile 2022