RICORDO DI ALDO BORLENGHI
Scrivo di Aldo Borlenghi (1913-1976) a più di un anno dalla sua morte, che troppo pochi hanno ricordato, per affetto più verso il docente che verso il poeta. Ho seguito le lezioni di Borlenghi per tre anni, all’ Università Statale di Milano, ho dato con lui due esami: aveva fama di professore severissimo e quasi crudele, caustico e ironico nei confronti degli studenti, che trattava con gelida cordialità, senza mai tentare (se non con i suoi laureandi) approcci più profondi. Scrupoloso nella preparazione delle sue lezioni, non divagava mai; mai si lasciava coinvolgere in polemiche o discussioni che non riguardassero il suo corso. Nonostante il suo passato di antifascista, il suo fiero anticlericalismo, il suo cerebralissimo comunismo, nessun accenno veniva mai fatto alla situazione politica; il movimento studentesco, intervenendo nel suo corso, si trovava di fronte a una muro di indifferenza quando non di aperta ostilità. Ma non era, Borlenghi, un “potente” tra gli accademici. Non lo si poteva definire “barone”. Viveva in una dimensione estranea a ciò che gli accadeva intorno, superiore (con aristocratico disprezzo) a tutto e a tutti, eterea: era, se possibile, uno studioso puro. Ma pure un uomo in qualche modo disarmato e disarmante: e valgano a esempio questi due episodi.
Avvicinandosi a una studentessa che durante le lezioni leggeva il giornale, aveva tentato di rimproverarla, ma dinanzi alla reazione agguerrita di lei, aveva concluso con un timido «Credo che non si possa»; ancora, nel corso di una lezione difficile e noiosa, si era interrotto, e nel suo flebile e arguto toscano «Volevo sincerarmi che proprio nessuno mi ascoltasse». Io, veramente, quella volta lo ascoltavo, ma in realtà non gli importava avere o no studenti, allievi, persone che lo stimassero. La sua attività di poeta fu sempre strettamente collegata con quella di critico, ed entrambe procedettero secondo parametri comuni: meditato rigore di ricerca, severo controllo stilistico e formale, fastidio per gli schemi ideologici e tutti gli incalanamenti dottrinari, puntiglioso e assoluto riferimento alla parola, che veniva analizzata, scomposta e ricomposta, levigata, resa insieme intensa e impalpabile, puro suono. Il primo libro di versi di Borlenghi, che tuttavia fu un poeta precoce, risale al 1943, a un periodo per forza di cose poco attento alla poesia; ma già era stato preceduto dalla pubblicazione della sua tesi su Leopardi. Così, se i suoi versi uscirono ancora in edizioni molto distanziate tra loro (Mondadori 1952, Mondadori 1965: se lasciamo perdere due piccoli volumi a tiratura limitata, nel ’58 e nel ’72), i contributi critici furono invece più frequenti, accompagnando e puntellando la sua attività di insegnante universitario. Argomenti preferiti erano il Tommaseo, Machiavelli, il teatro del ‘500, la novellistica del ‘300, la critica letteraria ottocentesca, e ancora Leopardi. La sue poesie mantengono tuttora la fama e il fascino di una lettura difficile, di una penetrazione quasi impossibile. Ricordo uno splendido attacco: «Rifiuto, ai luoghi, qualunque / incidenza affettiva». Né i luoghi, né le persone o gli amori, né la sua stessa vita assumono una qualche importanza, nell’economia della sua poetica: tutto vale tutto, e di niente e con niente “fa” una poesia: «A che il metallo delle acque / sottometta riflessi / nel nulla della luce e al riparo a lungo / da un salire, a interminabile descrizione di larve, / di un incresparsi che alle tenebre già accosta; / a che, le incrinature sue di un metallo / che primo si cancellerà: di forme / assidue smaterializzata / profondità e non / accecante non correre cieco / e ripetersi e riprodursi».
«Quinta generazione», giugno 1977