POESIA OPERAIA: POESIA DEGLI OPERAI O POESIA PER GLI OPERAI?
Ci sono libri di poesia (eletti, di quelli che vincono i premi) che riesco a leggere restando immobile dove mi trovo, seduta al tavolo, sdraiata sul divano. Ce ne sono altri che mi mettono così in contraddizione, urtandomi dentro le loro ragioni e facendole cozzare con le mie, da costringermi ad alzarmi continuamente, a camminare agitata per la stanza, a mangiare qualcosa: insomma a muovermi. Mi capita sempre di distinguere tra questi due tipi di poesia: li chiamo poesia che ricuce e poesia che strappa. La poesia che ricuce tende in generale a sciogliere i nodi, non è sempre consolatoria ma è sempre conciliante, porta il lettore con sé, lo immerge nella sua scia, lo universalizza, spesso mettendolo a confronto con i temi definitivi (bene, male, vita, morte, amore). La poesia che strappa fa invece il contrario: entra nel lettore, lo contesta. Lo fa soffrire. Ha una funzione di pungolo e di provocazione. Solo essa riesce a essere poesia politica. Rifacendomi a questa mia distinzione, quando sento parlare di poesia operaia, immediatamente e inconsciamente colloco i suoi prodotti nella seconda categoria, cadendo nell’errore di pensare che gli operai (in quanto classe antagonista, classe subalterna) non possano scrivere che poesia che strappa: di rifiuto, di accusa, di lotta. Mi rendo conto che questa mia attesa è arbitraria e ingiustificata, so di investire di una mia mitica aspirazione dei soggetti sociali su cui già pesano ben altre responsabilità e troppe altre mitizzazioni. Ma non riesco ad allontanare da me una certa delusione, quando non addirittura un notevole fastidio, se mi capita di leggere poesie operaie che parlino d’amore, o contengano elementi paesaggistici, o dilemmi esistenziali. Perché scivolo in questa contraddizione? Perché altri critici e intellettuali sono caduti in questo non troppo innocente errore, di ghettizzare culturalmente l’operaio, assegnandogli un campo specifico e limitato di letteratura (benevolmente definita “selvaggia”, tanto per intendere che non è la letteratura “vera”), da studiare con la stessa buonafede degli antropologi che vanno in Africa? Sembra che il lettore non-operaio, l’intellettuale-critico anche se di sinistra, si aspetti dagli operai che parlino SOLO di fabbrica, cioè di qualcosa di cui hanno diretta esperienza. Se la poesia operaia è poesia di fabbrica, si perdona ad essa anche la non competenza linguistico-formale, visto che c’è competenza di contenuti. Ma se questa poesia scritta da operai, oltre a non essere “colta” (cioè a non rispettare determinate regole di gusto, e di sapienza, letteraria) non è nemmeno giustificata, riscattata dai contenuti, ecco che la si snobba, non le si dà più credito. C’è in questa domanda di riscatto che si pone alla poesia operaia molta più severità di quella usata in genere verso la poesia borghese, alla quale già da decenni non si chiede più di aderire ai contenuti, e con le cui disinvolture e trascuratezze formali si è molto più indulgenti. Perché allora il critico pretende dall’operaio contenuti operai, requisitori nei toni, aspri nella forma? Forse perché tende a domandargli anche in letteratura quel rifiuto esplicito, quella lotta politica immediata che egli non sa/può leggere altrove… E perché oltre a essere così esigente per i contenuti, è addirittura insofferente riguardo alla forma? Sembra che voglia far arrivare all’operaio questa indicazione: “Non vuoi più essere operaio? Vuoi diventare scrittore? Allora impara a scrivere bene, cioè COME NOI. Coi TUOI contenuti ci garantisci che sei e rimarrai operaio, con la NOSTRA forma ti garantiamo l’attenzione letteraria”. Queste sono le più macroscopiche contraddizioni in cui si imbatte il lettore non-operaio. Ma lo scrittore operaio ne vive sulla sua pelle altrettante, e più esasperate ancora. Intanto, perché scrive? Per antagonismo di classe, per dare voce a una letteratura alternativa o invece per un’aspirazione più individuale e “borghese”, quale quella di farsi conoscere, o di cambiare condizione sociale? Perché poi scrive così, con contenuti operai e forme tendenzialmente borghesi? Perché davvero non conosce altro (quella è la sua vita, quella la cultura che gli hanno dato), o perché – come si è visto – questo gli chiede l’unico mercato da cui aspira di essere letto, quello dei critici borghesi? Infine, in quale altra maniera può scrivere, come sottrarsi al giogo dei significati obbligati (e scontati) e a quello dello stile scopiazzato, importato?
A tutte queste cose, e a molte altre, pensavo leggendo tre numeri della rivista operaia ABITI/LAVORO, dove le poesie dure, di ribellione, si mescolano a poesia tradizionali, perfino elegiache. Questi operai/redattori sono alle prese con problemi enormi, su cui è sperabile aprano un dibattito approfondito. In primo luogo su cos’è la loro scrittura, ma anche su qual è il loro pubblico, che funzione avrà una loro editoria, ecc. Ci sono tutte le premesse perché nasca una rivista davvero nuova, e fatta da addetti ai lavori: i poeti-operai, che sono tantissimi, ma che ci devono e si devono chiarire tali questioni, se non vogliono che rimaniamo nello scontato, nella solidarietà (dei critici con loro) o nell’ostilità (loro contro i critici) espressa solo a parole, ma sostanzialmente ipocrita.
«abiti-lavoro» n. 4, autunno 1982