FEDERICO ITALIANO, L’INVASIONE DEI GRANCHI GIGANTI – MARIETTI, MILANO 2010

Che felice sorpresa, la lettura di questo sottile e resistente (nel senso di compatto, forte e sicuro della sua voce) libro di versi del giovane poeta e critico Federico Italiano: così fieramente lontano da stili e contenuti imperanti nella flebile, introspettiva e generica produzione letteraria dei suoi coetanei. Italiano ha qualcosa da dire, finalmente, ed è completamente padrone dei mezzi a sua disposizione per dirlo. Forse perché vive e lavora, occupandosi di arte-filosofia-scienza, tra Monaco e Vienna, estraneo quindi al provincialismo culturale della nostra penisola; o forse perché quotidianamente si misura con un’altra lingua, razionale e dura come il tedesco. Le elogiative parole che gli dedica Davide Rondoni nella quarta di copertina suonano quasi inadeguate, minimaliste: «una possibile epica… la possibile letizia… misteriosa grazia e libertà…».
Qui in realtà siamo davanti a qualcosa di diverso e di nuovo, a un poeta che riesce a scrivere di una quotidianità fatta di gesti concreti, di osservazioni puntuali sulla realtà, rifiutando qualsiasi edulcorante retorica. I ritratti dei personaggi, ad esempio, che ce li restituiscono nella loro disarmata e compiuta interezza (l’ostetrica del paese, il giocatore di scacchi siriano…).
O i ricordi, mai autocelebrativi, mai nostalgicamente commossi: (il terrificante crocefisso della stanza dei giochi, il dopobarba del papà tornato dal suo lavoro in Africa, l’alba traslunata di Miami…). Italiano parte dalla vividezza di un particolare, per poi risalire con intelligenza descrittiva alla costruzione di un episodio in cui la poesia si cala proprio per la sua peculiare e straniante unicità. I versi raccontano squarci di vita vissuta, con la tranquilla limpidezza di una narrazione che sa farsi immagine quasi filmica, come nella descrizione di una notte nordica in cui gli addetti alla nettezza urbana spargono le strade innevate di sale e terriccio: «Rincasavo con lo sguardo sbilenco / ondulante tra i miei passi e le luci / delle poche finestre accese, quando // un camion evacuò ghiaia rombante / alle mie spalle…»
Uno stile molto personale, che aderisce al concetto, non si lascia sedurre dalle sirene di musicalità obsolete, o dai tentacoli di una tradizione asfissiante. E sa misurarsi con la storia, quella addirittura universale, tellurica, che osserva con l’intatto stupore e con la curiosità scientifica dello studioso: e con le storie private della sua esistenza, gli incontri, i viaggi, gli amori. Vicende sentimentali raccontate con asciuttezza ed ironia («Relazione lessicale, la nostra, mio melograno, / mio polipo, culinaria, hai sempre amato / una certa alchimia da fornello. / Una comunicazione ipotattica, disciplinatamente / ternaria, indeuropea»), e autoritratti che nulla concedono al compiacimento egotistico: «Poiché non da pianura, / ma dal fronte dei monti fui edotto, / educato alla venerazione del mammut». Una volta tanto, quindi, nella nostra poesia, un autore non mette in primo le venerate pieghe e piaghe della sua anima, ma la scienza (ad esempio), scandagliata nei suoi esperimenti e laboratori, con studiata applicazione nei riguardi del mondo animale (granchi, ostriche, làdani, mustelidi, lombrichi…). La geologia, testimonianza evidente e innegabile della nostra insignificanza di fronte al rincorrersi delle ere («… il progetto orografico del Buon Dio…  il cuore lo fissai al testo dei miei fossili»). E soprattutto la storia del mondo, che tutto trasforma, macina, inghiotte, confonde. Come nel poemetto  I Mirmidoni, in cui un gruppetto internazionale di giovani in un caffè di Monaco amoreggia, spettegola, sbevazza: involontari eredi e professionali comparse dei guerrieri greci, spettrali nei loro scudi, gambiere, archi e spade. O nella prima sezione del volume, forse la più interessante, in cui si ipotizza (o si vagheggia?) un’ inarrestabile invasione di rospi, locuste o granchi giganti che da chissà quali sconosciuti antipodi dilaghi nel mondo occidentale, mettendo fine al suo degrado morale, civile e ambientale: «Popolo che muovi sotto le acque, prelibata / carne della distruzione, migrazione / disgiuntiva della ricchezza / bilancia del consorzio umano, inconsapevole / armata della storia, / moltìplicati, / perché la piaga sia piena e la punizione completa». Profezia visionaria di una lucidissima coscienza poetica.

«Atelier» n. 68, febbraio 2013