OCEAN VUONG, IL TEMPO È UNA MADRE – GUANDA, MILANO 2023
Sono circa una trentina le composizioni raccolte in Il tempo è una madre, ultima pubblicazione italiana di Ocean Vuong, poeta e narratore statunitense di origini vietnamite. Nato a Ho Chi Minh nel 1988, emigrato con la famiglia nel Connecticut nel 1990, si è affermato giovanissimo nel panorama letterario americano affrontando temi autobiografici e sociali (la famiglia, l’omosessualità, lo sradicamento culturale, il consumismo) attraverso un linguaggio fortemente innovativo, che utilizza con intelligenza lo slang e la sperimentazione sintattica, la visionarietà di stampo cinematografico e la provocazione verbale.
Già la prima bellissima poesia introduttiva al volume, Il toro, contiene molti elementi identificativi del suo stile: dall’atmosfera onirica (la visione allucinata del bestione nero dagli occhi azzurro-kerosene), all’autoritratto di un sé stesso sfasato nel rapportarsi agli altri (“io ero un ragazzo – / il che vuol dire che ero l’assassino / della mia infanzia. & come per tutti gli assassini, il mio dio / era l’immobilità”), ai versi graficamente scomposti, al vezzo grafico di usare come congiunzione il carattere “&”, all’uso sapiente della metafora (“Come una cosa pregata / da un uomo senza bocca”), all’attenzione per i particolari ambientali (la lampada nel portalampada), all’esibita necessità di comprensione e tenerezza (“avevo bisogno che la bellezza / fosse più che un dolore mansueto / abbastanza da poterlo abbracciare”), fino allo scavo psicologico interiore (“Arrivai – non al toro – ma agli abissi”).
Sono requisiti che troviamo sparsi in tutti i testi della raccolta, insieme ad altri, come la fortissima e sdegnata denuncia sociale contro il razzismo, i pregiudizi sessuali, l’esclusione di indigenti, malati, anziani, oppositori politici. In Caro Peter, ad esempio, racconta in forma epistolare di una ospedalizzazione psichiatrica a base di Xanax, costrizioni fisiche, colloqui mirati a un’improbabile “normalizzazione”. “Dentro la mia testa la guerra è dappertutto”, afferma, confessando il suo perpetuo disagio, nutrito da incubi, confusione, fantasie oscene, proiezioni suicidarie, intrecci martellanti di brani musicali e scene da film: un lungo elenco di infelicità, rabbia, sensi di colpa, desideri di vendetta.
Ma anche intensità di sentimenti ricambiati con chi gli è vicino: l’ultimo ragazzo amato, la nipotina, i genitori. Il ricordo della madre morta è fatto di nostalgia, recriminazioni, fantasie incestuose: “La silhouette secca di mia madre / Promettimi che non svanirai di nuovo, ho detto / Lei è rimasta là sdraiata per un po’, ripensando / A una a una alle case ha spento tutte le luci / Io mi sdraio sulla sua silhouette, per mantenerla vera / Insieme abbiamo fatto un angelo”. Della mamma recupera un’antica ricetta, desideroso della sua approvazione postuma: “Io sono / un figlio passabile… // Il piatto si annebbia dei propri / spettri”. Il rapporto col padre, operaio in una fabbrica di calze con cui non c’è mai stata alcuna confidenza o manifestazione d’affetto, viene esplorato in una delle poesie più commoventi del libro, Leggenda americana, in cui Ocean racconta di come abbia volontariamente provocato un terribile incidente automobilistico per avere l’opportunità di baciare e abbracciare per la prima volta il suo vecchio, e di liberare il cane malato che entrambi stavano portando dal veterinario per la soppressione.
Troviamo nei racconti in versi di Ocean Vuong tracce del cinema di Spike Lee, della scrittura depressa e incazzata di Raymond Carver e Charles Bukowski, e il ricordo urlato della beat generation. Ma con una consapevolezza nuova, in cui l’emarginazione sociale si trasforma in sfida e orgoglio di un’intera generazione immigrata nel regno del capitalismo mondiale, e insieme diventa sprone a una maggiore conoscenza di sé, dei propri limiti come delle proprie ambizioni e privilegi. “Finalmente, dopo anni e anni, sono diventato un perdente / professionista. / Sono imbattibile a perdere”, “Una volta ero frocio ma adesso sono un fico. Ah”. L’essere vietnamita americano, gay, poeta non ha fatto di lui “L’ultimo dinosauro”, non l’ha penalizzato intellettualmente ed emotivamente, perché gli ha permesso di sottrarsi ai condizionamenti soffocanti di sovrastrutture culturali che disprezza e rifiuta: “Quando mi chiedono come ci si sente, rispondo / immaginatevi di essere nati in una casa di riposo / in fiamme. Mentre i miei parenti fondevano, io me ne stavo / su una gamba, alzavo le braccia, chiudevo gli occhi & pensavo: / albero albero albero mentre la morte passava oltre – / lasciandomi illeso”. Al di là di ogni sofferenza e gioia privata, Ocean Vuong sa proiettarsi in un oltre spaziale e temporale, nella Germania nazista come nel Vietnam bombardato dei suoi nonni, con la sensibilità che lo rende vicino e solidale alle sorti di una pianta, di un pesce, di un supermercato, della neve destinata a sciogliersi: ovunque insomma il suo sguardo sappia farsi partecipe del fuori da sé, tra cose minime e universali: “Be’, eccolo qui / il mondo, piccolo / & grande come un padre”.
Un plauso ai traduttori di questo ottimo libro, Damiano Abeni e Moira Egan.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 6 marzo 2023