ALICE CERESA, LA FIGLIA PRODIGA – LA TARTARUGA, MILANO 2023

Esploratrice dei disvalori trasmessi dalla famiglia di stampo patriarcale, Alice Ceresa (Basilea 1923 – Roma 2001) nei suoi libri, in tutta l’intensa attività culturale svolta, e soprattutto nella radicalità delle scelte esistenziali, ha offerto una preziosa testimonianza letteraria e civile, sia dal punto di vista dell’originalità innovatrice della scrittura (aderì allo sperimentalismo del Gruppo ’63), sia nella coraggiosa denuncia delle discriminazioni patite dalle donne nell’ambiente domestico e nella società. Giustamente quindi la rediviva e storica collana La Tartaruga, diretta oggi da Claudia Durastanti, ha deciso di riproporne l’opera.

Alice Ceresa nacque, crebbe e lavorò in Svizzera come giornalista e traduttrice, per trasferirsi nel 1950 a Roma, dove assunse ruoli di primo piano nel mondo dell’editoria e della pubblicistica. Dopo La figlia prodiga (Einaudi 1967, Premio Viareggio Opera Prima), pubblicò solamente un altro romanzo, Bambine (Einaudi 1990). Sono usciti postumi il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo 2007) e La morte del padre (Baldini&Castoldi 1922). Pur aderendo ideologicamente alle tematiche femministe, ne rifiutò gli stereotipi più banali, approfondendo invece l’analisi introspettiva dei caratteri e le motivazioni delle scelte individuali delle donne: temi trattati con ruvida ironia, lontani da sentimentalismi retorici, da rancorose rivendicazioni o inutili vittimismi. La sua narrativa ha stigmatizzato le contraddizioni e le rimozioni che la società contemporanea manifesta nei riguardi dell’altra metà del cielo, e lo ha fatto attraverso moduli stilistici già di per sé perturbanti nella loro originalità. Lo testimoniano i giudizi con cui importanti critici (Vittorini, Calvino, Fortini…) lodarono il suo primo romanzo, proponendolo e votandolo al Premio Viareggio. Maria Corti scrisse: “In un impianto trattatistico atemporale i personaggi, depurati di ogni concretezza e modellati in un vuoto ambientale e storico, si muovono al tocco di una logica formale che li rende esemplari”. E Giorgio Manganelli fu ancora più entusiasticamente munifico: “Scritto in una prosa scandita, quasi versetti, La figlia prodiga si distingueva per la sua perfetta mancanza di riferimenti ad alcunché di concreto. Non era il racconto di una figlia prodiga, né l’analisi psicologica, né la descrizione, ma piuttosto una chiosa elaborata e capziosa su un concetto mantenuto del tutto intangibile. Alcuni, e io tra questi, lo trovarono un libro affascinante, per certo versi unico; pertanto, sicuri di non sbagliare, ci mettemmo in attesa del secondo libro. Eravamo impazienti; eravamo curiosi. Mai scrittore al mondo riuscì a frustrare una impaziente attesa in modo più meticoloso. Passarono gli anni, e ogni tanto giungeva una voce: la Ceresa lavora al secondo libro. Gli anni divennero decenni”.

La figlia prodiga è più di un romanzo, e ben si merita l’attenzione che le è stata attribuita alla fine degli anni ’60. È infatti anche saggio, pamphlet polemico, parabola allegorica, racconto formativo, che segue, più che una trama concreta di fatti e azioni, i meandri della riflessione irrequieta e ombrosa dell’autrice. Del suo libro, l’autrice ebbe a dire: “Il personaggio di cui si parla è un personaggio incredibile e improbabile… Ho tentato di narrare un’avventura individuale nella sua parabola vitale, sostituendo non solo a un personaggio credibile un personaggio artificiale, ma anche al tessuto narrativo convenzionale e ‘probabile’ un tessuto astrattoPrima e oltre che essere un prodotto sociale, è un fenomeno semantico”.

Oggetto della narrazione è la ribellione di una ragazza all’interno della propria famiglia, ribellione che si protrae nel tempo contro ogni tipo di istituzione feroce nel sottoporre le donne a regole indiscusse e indiscutibili, persino nella loro plateale ingiustizia. La protagonista si oppone, con protervia e orgogliosa autonomia, al ruolo cui la si vuole obbligare, e a differenza del figliol prodigo evangelico, che dilapida i beni materiali del padre, il suo sperperare si manifesta attraverso una libertà di pensiero e di scelte di vita del tutto anticonvenzionali, che la rendono invisa ai parenti, ripudiata perché ripudiante l’ordine imposto. La radicalità sovversiva di questa posizione (che ricalca la biografia dell’autrice, allontanatasi dalla casa paterna ticinese a sedici anni per inserirsi nell’ambiente intellettuale germanofono) viene ribadita dall’impianto formale del romanzo, di cui Laura Fortini afferma, nella penetrante e intensa prefazione al libro: “Scritta con un linguaggio preciso e quasi micidiale nella sua tagliente microchirurgia del dettaglio”, propone una “prosa scandita da pause impervie e al tempo stesso furiosamente fluente nel distillare i termini del problema, lo scandirsi dell’infanzia, la presa di coscienza, l’età adulta della figlia prodiga, ovvero il divenire una soggettività femminile imprevista”. Non solo imprevista, ma addirittura sconcertante nella sua indomita disobbedienza. “Una figlia prodiga è senza dubbio una persona da una parte unica e dall’altra esemplare”, perché scardina e corrode i rapporti familiari già da bambina, estranea all’istinto filiale, lontana dalle “sante, sacre e buone cose della famiglia”, eccentrica nella sua provocatoria innocenza, capace di usare la dissimulazione “contro il mondo e per difendere non difendibili e dal mondo messe al bando cose”. “L’ordine delle famiglie, è risaputo, non prevede le figlie prodighe… perché

non appena sono prodighe

le considera figlie degeneri o figlie sbagliate e dunque figlie

solo fino ad un certo punto”.

 

Di questa bambina “infingarda” non veniamo a sapere nemmeno il nome, quasi ci bastasse a definirla il suo atteggiamento ostinato e arrogante, indifferente al turbamento dei genitori, fomentatore di reciproco malessere e fastidio. Il corso della sua esistenza verrà scandita a tappe: infanzia, adolescenza, maturità, con un’attenzione meticolosa al suo indecifrabile mondo interiore, all’unicità e al differenziarsi del proprio esserci rispetto a ciò che è altro da sé, tra adeguamento alla norma ed eccezione alla norma.

Non è solo la famiglia patriarcale a venire presa di mira da Ceresa, né la società maschilista o l’eterosessualità imposta come regola, bensì la letteratura stessa, ossidata e immobile, incapace di reinventarsi, di giocare e di mettersi in gioco.

la letteratura non esiste. Solo esistono le storie. Le

quali, prima di venire raccontate

accadono

e storie sono quando accadono

e non quando più o meno casualmente vengono raccontate.

Ceresa usa infatti abilmente vari codici formali (dalla parodia alla satira, dall’esposizione sistematica all’allegoria e alla provocazione polemica) e figure retoriche poco utilizzate in narrativa (anacoluti, anastrofi, iperboli, pause, circonlocuzioni, ripetizioni ossessive, spaziature, continui e imprevedibili a capo, arcaismi e neologismi), con l’evidente intenzione di provocare in chi legge un continuo stimolo all’analisi, alla riflessione, forse anche un’inasprita concentrazione sulle soluzioni lessicali e semantiche proposte.

Già dalle pagine iniziali troviamo una sorta di dichiarazione d’intenti, una disquisizione sia letteraria sia filosofica su cosa significhi appartenere ai due differenti sessi, bloccati in sedimentazioni culturali, e in che modo si possa/debba decifrare tale opposta diversità. La frase d’apertura del romanzo appare subito spiazzante, non solo per la disposizione grafica:

Sarebbe giocare di malriposta astuzia

raccontare una storia di questo genere come si potrebbe

raccontare una storia qualunque.

 

Non si tratta, infatti, di una storia qualunque, ma di una storia paradigmatica mai circostanziata nei particolari, che nel finale dichiara beffardamente, scandalosamente, la propria simulazione programmata:

 

l’unica verità possibile di una storia, che sarà sempre sia poi

nell’un modo, sia poi nell’altro,

solamente ed eternamente

un inganno.

 

Nei due romanzi successivi (La morte del padre e Bambine) è ancora il modello tradizionale e patriarcale di famiglia ad essere preso di mira, con durezza e caustico sarcasmo, e senz’altro ciò ha fatto di Alice Ceresa un faro della letteratura di genere, anticipatrice delle tematiche femministe e omosessuali del terzo millennio. Ma è soprattutto l’originalità e l’estrema maestria stilistica di questa appartata, scontrosa, destabilizzante scrittrice a meritarle, nel centesimo anniversario della nascita, un posto di eccellenza tra i narratori italiani del secondo Novecento.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 4 luglio 2023