GIORGIO AGAMBEN, QUEL CHE HO VISTO, UDITO, APPRESO… – EINAUDI, TORINO 2022
Sulla quarta di copertina del volumetto di Giorgio Agamben pubblicato da Einaudi lo scorso anno, Quel che ho visto, udito, appreso… leggiamo: “parole ultime o penultime, vergate in fretta, come da chi prende appunti per il suo testamento”. Si tratta in effetti di una serie di riflessioni “serotine”, crepuscolari non tanto in senso letterario, ma perché scritte al tramonto di una lunga esistenza, tentando un inventario di ciò che si è riusciti a fare, tra obiettivi raggiunti e mancati, occasioni perse e afferrate al volo, incontri arricchenti o frustranti, amicizie, rimorsi, tradimenti. E più che un elenco di stampo diaristico, assistiamo a una serie di illuminazioni, squarci di verità che improvvisamente diradano la nebbia, accendono il buio, rivelano.
Ho visto… ho udito … ho appreso: ogni capitoletto, nell’estensione limitata di un aforisma, si apre con tali dichiarazioni. Dai due sensi fondamentali deriva la conoscenza di ciò che si sa e di ciò che si è, trasformati dalle sedimentazioni di diverse impressioni, accresciuti nella consapevolezza di noi da quanto si presenta – inatteso e vivificante – alla nostra coscienza assopita.
Cos’ha visto dunque Agamben? Una “capretta snella, esitante, divina” che ricambiava umanamente il suo sguardo, esplosioni di colori sotto forma di estasi e inaspettata felicità, uomini malevoli e calunniatori in ogni paese del mondo. Cos’ha udito? Le campane che dicono “qualcosa senza bisogno di parlare”, il grido di un unico poeta “in luogo di un popolo assente”, donne analfabete cantilenanti la Bibbia.
E cos’ha imparato da tutto il veduto e l’ascoltato? “Che noi esistiamo solo nelle intermittenze del nostro esserci, che quello che chiamiamo «io» è solo un’ombra sempre in congedo e in annuncio, memore appena del suo dileguare”. Viviamo infatti nella precarietà e nell’illusione, e nessuno è essenziale nell’economia dell’universo, essendo creazione e distruzione adiacenti. Ha appreso che il mito sa insegnarci più della storia, perché è indifferente tanto al vero che al falso, dato che non esistono verità, ma solo errori: i propri. Che non la conoscenza è importante, ma solamente la spinta che se ne ricava. Invece è fondamentale accorgersi che Dio è nelle cose e le cose sono in Dio, e che “la semplice, giornaliera sensazione di esistere” deriva dal “destarsi al mattino con questa minuscola gioia”. L’arte di vivere e di farsi divini implica la capacità di abitare non “la casa, ma la soglia, non il centro, ma il margine”.
Assunta la consapevolezza della propria marginalità, l’essere umano può raggiungere la beatitudine attraverso la contemplazione, con il compito di condividere sia la visione sia la cecità con l’altro, in un rapporto di scambio, apertura, amore, coltivando “la memoria del non ancora e del non più umano – del bambino, dell’animale, del divino”.
In queste meditazioni è il filosofo che parla, con la lingua del saggio, del sapiente antico, nutrito in spirito e mente dai testi sapienziali di tutte le religioni, dai grandi pensatori (Epicuro, Lucrezio, Platone, Averroè, Spinoza), da poeti e scrittori (Kavafis, Annamaria Ortese, Elsa Morante, Kafka).
Uomo del XX secolo, Agamben ha provato ad affacciarsi al nuovo millennio, ma se ne è ritratto con timore e tremore, senza riuscire a comprenderlo, e senza riuscire a recuperare un’altra dimora del pensiero: “Come la colomba, siamo stati mandati fuori dall’arca per vedere se c’era sulla terra qualcosa di vivo, anche soltanto un ramoscello di ulivo da prendere nel becco – ma non abbiamo trovato nulla. E, tuttavia, nell’arca non abbiamo voluto tornare”. Il filosofo, l’autore, ha il dovere di testimoniare, anche nel silenzio, nel taciuto e nel non vissuto. Già da bambino aveva intuito l’invivibilità, l’inesplicabilità e il vuoto dell’esistenza, inesprimibile, a cui lasciare uno spazio bianco nella pagina: “la sorte che ci è stata assegnata è fallire: in ogni arte e studio come e soprattutto nella casta arte di vivere bene… Ci dimentichiamo di noi e ci perdiamo, così come Dio, perdendosi in noi, si smemora di sé”. Ammettere il fallimento è l‘unico modo per salvare le piccole creature che siamo.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 20 agosto 2023