LUCIANO BIANCIARDI, GARIBALDI – MINIMUM FAX, ROMA 2020

Le edizioni Minimum Fax hanno ripubblicato la biografia di Garibaldi scritta da Luciano Bianciardi cinquant’anni fa: iniziativa lodevole e interessante, poiché si tratta di un testo vivace, scorrevole nella prosa, puntuale nelle ricostruzioni storiche.

Il profilo biobibliografico e la bibliografia dell’autore sono a cura di Fabio Stassi, che mette affettuosamente in luce la tormentata vicenda esistenziale di questo outsider della nostra letteratura, “un fuori misura” che stava “al mondo come per sbaglio”, “l’ultimo bohémien possibile”, come l’aveva definito Giovanni Arpino. Reso famoso dal romanzo La vita agra del 1962 (da cui Carlo Lizzani trasse un film con Ugo Tognazzi), Bianciardi era comunista e irriducibilmente ostile all’establishment culturale italiano che per tutta la vita cercò di ingabbiarlo, ammorbidendone carattere e ideologia. Nato a Grosseto nel 1922, morì non ancora cinquantenne, entrato “in una spirale autodistruttiva”, fatta di alcol, fumo e depressione. Era stato giornalista, straordinario traduttore dall’inglese e ottimo romanziere, nutrendo due grandi passioni: il calcio e il Risorgimento.

Il suo amore per questo periodo storico, iniziato già durante l’infanzia, trovò espressione in ben cinque libri, a partire dal 1960, fino all’ultimo dedicato all’eroe dei due mondi, uscito postumo nel 1972.
Garibaldi ripercorre la vita dell’unico grande condottiero rivoluzionario che ha avuto il nostro paese, a partire dalla nascita avvenuta il 4 luglio 1807 a Nizza, per ironia della sorte città passata alla Francia napoleonica qualche anno prima, poi tornata al Piemonte nel 1815, e definitivamente ceduta oltralpe nel 1859.

Ligure, soprattutto, ma anche francese e in seguito sudamericano, Giuseppe detto Peppino “veniva su dritto e robusto, non grande di statura ma con un bel portamento della testa bionda, della fronte ampia, della bocca facile al sorriso”. Generoso ed entusiasta di tutto, appassionato del mare, si imbarcò quindicenne come mozzo sul brigantino Costanza, dedicandosi da allora in poi alla vita marinara e al disegno insurrezionale di liberare l’Italia dal dominio straniero, trascinato dalla lettura di Saint-Simon e dei proclami mazziniani. Negli anni ’30, quando moti indipendentisti scuotevano tutta la nostra penisola, Garibaldi alimentava il suo anelito libertario: “dovunque vi siano tiranni, l’uomo giusto ha il dovere di accorrere e di battersi per la libertà dei popoli. Non basta amare il proprio paese e difenderne la libertà, occorre far sì che tutti i popoli si tolgano di dosso le catene”.
Condannato a morte in contumacia come cospiratore, riparato a Marsiglia e poi marinaio con tunisini e turchi, nel 1836 si imbarcò per Rio de Janeiro, dove venne accolto con entusiasmo dagli esuli italiani, si mise al servizio di ogni causa rivoluzionaria, a capo di ribelli, rivoltosi e pirati, dando inizio alla leggenda di coraggio e insubordinazione che lo accompagnò per tutta la vita.

Bianciardi racconta l’incontro con la diciottenne Anita, suo grande amore, moglie e madre dei suoi quattro figli, il ritorno in Italia nel ’48 (anno incendiario in tutta Europa) su una nave dal nome augurale, Speranza, il suo mettersi al servizio di principi, re, governi provvisori, a capo di un piccolo esercito di volontari straccioni, braccato dagli austriaci e sempre scampato all’arresto. Piemonte, Lombardia, Toscana, Roma eterna e papalina, Romagna, e qui la morte di stenti di Anita, la sua sepoltura “sconsacrata e frettolosa”.  Di nuovo in fuga, protetto ovunque da una rete di solidarietà popolare, fuggiasco a Tunisi, a Tangeri, a New York, a Panama, a Lima, a Canton, infine tornato in Europa nel 1854, dove ad aspettarlo c’era il re del Piemonte Vittorio Emanuele II con il suo Primo Ministro Cavour.

Il resto è storia, da tutti conosciuta e riportata in ogni libro scolastico: Quarto, Palermo, il notissimo “Obbedisco”, Mentana, Digione, fino al tramonto a Caprera. Tra la solitudine e l’inazione nell’isola sarda e l’elezione a deputato in Parlamento nel ’75, mentre intorno a lui morivano Mazzini, Manzoni, Vittorio Emanuele, Garibaldi malato ma circondato dall’amore dei figli e della terza moglie  Francesca Armosino, dettava il suo testamento, ferocemente anticlericale e fieramente repubblicano, e lasciava la terra il 2 giugno 1882, sepolto a Caprera alla presenza di quattromila persone: ministri italiani e stranieri, vecchi garibaldini, commossi estimatori di tutti i ceti sociali.

Nella postfazione al volume, Giancarlo De Cataldo giustamente sottolinea come da un “anarchico, ribaldo… al culmine di una vita urlata, di un’esistenza ‘contro’” come Luciano Bianciardi, ci si potesse aspettare una demitizzazione, una desacralizzazione della figura di Garibaldi, e non invece un così dichiarato amore, una tale rispettosa fedeltà, da “tifoso accanito”. In realtà, nell’esaltazione del grande combattente rivoluzionario – su cui in anni a noi più vicini era calato il velo dell’indifferenza e di una esibita antiretorica -, lo scrittore toscano aveva ancora una volta messo in luce il suo anticonformismo: “Credere in quella stagione eroica e nella sua persistenza nel tempo è l’atto di fede di un laico che, per quanto disincantato, ha individuato una bandiera nella quale riconoscersi e si ostina a sventolarla ad onta del generale scetticismo”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net             27 SETTEMBRE 2023