MAROSIA CASTALDI, FERMATA KM. 501 – TRANCHIDA, MILANO 1997

Forse chiunque scrive, lo fa per esorcizzare paure: paura di morire, in primo luogo, e paura di vivere. Tra vita e morte, tra le angosce prodotte dall’esistere e dal non esistere più, si situa questo romanzo di Marosia Castaldi, Fermata Km.501. L’autrice si confronta con una dimensione vastissima, atemporale e preconscia, in cui la parola diventa l’unico elemento concreto e stabilizzante, la scrittura è la sola possibilità di ancoraggio a un qui e a un’ora definiti.
Chi scrive è demiurgo della propria materia, ma insieme si mimetizza e confonde nel magma del proprio racconto, e in esso si riconosce e da esso pretende la propria identità:«Io vengo dopo perché racconto. Questo lo so per certo. Io sono il testimone. Ho scritto da me la mia storia…Li ho seguiti nel viaggio come una ladra, come uno che ruba cibo che non gli appartiene».  E’ attraverso la testimonianza che la scrittrice diventa ciò che è, si definisce anche come persona portatrice di una storia propria: l’auto-identificazione nasce proprio dalla scrittura, la realtà deriva la sua essenza dal fatto di venire interpretata e descritta:

«E la pagina è come l’abisso in cui allora mi trovavo, un’incognita che avrebbe preso forma solo in conseguenza del mio scriverla, un futuro senza futuro su cui ad ogni istante affacciavo il passo incerto. Puri pretesti, allora, paiono le esistenze dei personaggi; le loro parole, i gesti, il nascere e il morire: Giulia, Laura, Ermanno. Ettore, Canio, Marta confondono i propri destini e ruoli, sovrappongono i loro confini».

Solo elemento unificante della famiglia a cui appartiene l’autrice è pertanto il cognome, “Arlo”, che personalizza, riconoscendoli, incastrandoli in un casellario definito, i vari membri. «Signora Arlo? Ero dunque io la signora Arlo? E cos’era quel nome che mi si era appiccicato? Avrei dunque dovuto portarmelo dietro, oltre la vita, per tutta l’eternità?». Gli Arlo tutti biondi e «bellalti», poco rappresentativi della meridionalità di cui fanno parte: ma ogni riferimento fisico, ambientale, anche geografico sfilaccia i suoi contorni in una irrealtà nebbiosa, si confonde nell’immaginazione e nel ricordo. E le frasi dell’uno vengono ripetute e fatte proprie dall’altro, addirittura il dato più personale che appartiene a un’esistenza, il momento della morte, viene attribuito a personaggi diversi. L’agonia della madre diventa quella della figlia, le parole pronunciate dal figlio primogenito amatissimo, Ermanno, nel momento in cui è colpito dall’embolia cerebrale che lo ucciderà, sono riciclate in bocca ai fratelli, ai genitori: «impazzisco», diceva Ermanno prima di cadere, e questa constatazione che è anche una supplica, diventa la parola chiave del romanzo, il leit motiv continuamente riaffiorante. La città che accoglie la storia degli Arlo è Napoli, ma potrebbe essere Barcellona come Marsiglia. Elementi caratterizzanti sono il mare, la metropolitana, il caldo, una pasticceria, la montagna. Soprattutto la montagna, sacra, incombente, fatta di roccia e di sangue, di lava e di miti ancestrali: ha una valenza simbolica, è un Olimpo abitato da divinità casalinghe e brulicante di turisti insensibili. Tutta la famiglia va alla montagna, come in un rito propiziatorio e magico, e si identifica in essa: è un’ascesi purificatoria, un’ascesa iniziatica e liberatoria, alla ricerca del compimento del proprio destino: «Ognuno è salito quando ha potuto. I tempi non sempre coincidono, perché nessuno di noi ha più saputo esattamente quando cominciava e quando finiva il tempo. Così ci siamo andati dietro, in circolo, senza sapere più chi è madre e chi è figlio, chi viene prima e chi viene dopo».

Proprio la circolarità, del tempo e dell’azione, è il carattere più peculiare del romanzo: storie che si rincorrono, incubi che entrano uno nell’altro e si animano e si decompongono (il vomito, l’ago nella vena, la finestra da cui buttarsi, flussi mestruali inarrestabili, bocche che masticano), riaffiorando di quando in quando nelle pagine. Altro elemento di rilievo è l’angoscia, la non serenità, il prevalere di colori cupi, foschi. Non c’è sollievo o limpidezza, non c’è sospensione del dolore, mai. I rapporti tra i familiari sono segnati dall’incomprensione, dalla non fiducia, dalla gelosia: la madre tradita minaccia perpetuamente il suicidio, il padre inquieto rifugge da qualsiasi coinvolgimento affettivo, i fratelli ondeggiano tra simbiosi e rifiuto violento. Ma nessuno viene descritto in un particolare fisico, in un gesto abituale, in qualcosa che lo definisca in positivo. La negatività dei rapporti diventa ostilità, fastidio evidente per qualsiasi dato corporale, concreto: tutto rimane fluttuante e indistinto, nell’inconsistenza ansiosa del sogno che mai si svela, mai sfora in un risveglio lucido e rassicurante.
Fermata Km. 501 è un romanzo complesso, nato da una ferita e alimentato da essa, teso in una scrittura non rappacificata, in perpetua ricerca della causa di tanto dolore. Una ricerca che l’autrice sa vana, ma a cui non riesce a sottrarsi: «E immagino un paese pieno di viaggi in cui dal centro alla circonferenza i padri e i figli e i vivi e i morti non cessano di andare di parlare e di rincorrersi e mi sembra normalissimo questo viaggio senza fine e mi domando in quale luogo ci fermeremo della pace perché non c’è senso a fuggire dal paradiso?».

 

«L’Immaginazione» n. 148, luglio 1998