VANNA CARLUCCI, LA PAROLA ANFIBIA – IL CONVIVIO, CASTIGLIONE DI SICILIA 2024
In un intervento pubblicato il 24 gennaio di quest’anno su La Poesia e lo Spirito, Vanna Carlucci così si esprimeva riguardo al suo rapporto con la parola poetica: “Come è possibile allora, per me, spiegare che esiste un animale selvatico che vive al centro del mio petto. È – come direbbe Milowsz – il daimon della poesia ‘come se fosse balzata fuori una tigre’. L’artiglio della parola è tra le sue zampe e dilania, ferisce e svela un linguaggio che è una forma che sanguina, una ferita. La poesia, quindi, è azione, movimento felino, contatto tra corpi”.
Un rapporto fisico, dunque, feroce e lacerante, un atto di violenza che incide la pelle e squarcia le vene, quello intessuto tra chi scrive in versi e il testo prodotto. Concetto che viene a più riprese ribadito nella recente raccolta dell’autrice pugliese, La parola anfibia, pubblicata dalle edizioni “Il Convivio” lo scorso marzo, e ben evidenziato dall’immagine graffiante della copertina
Parola anfibia, dalla duplice natura, salvifica e punitrice, è la parola della poesia: “La poesia, questa parete di luce /questo impianto di carne nell’universo” diventa “abisso senza protezione” in cui perdersi e dannarsi, che costringe a confessare la propria masochistica dipendenza: “il fremito di me che sono / la cassa sonante di una parola muta / terremotata nel costato / franata di luce”.
Una parola nata nell’oscurità, e dall’oscurità (“la parola nasce dentro il suo liquido nero e / si sparge lungo un campo di terra sterminato”), emersa e insieme minacciata da buio e da silenzio, i due sostantivi più ossessivamente ribaditi nel libro, diciotto e dieci volte ciascuno: “la risacca del buio”, “il buio dei nostri corpi”, “Nel buio dei respiri”, “il buio dietro gli occhi”, “sul mio volto buio”, “un piccolo silenzio pieno di sassi”, “nel silenzio della pelle trapassata, / c’è la violenza dello strappo” …
L’immagine del corpo sgualcito, ferito, sventrato, che macera, che si sgretola, ritorna spesso nelle pagine, ed è carne piagata dall’aggressione brutale inferta a volte proprio dalle parole scritte o pronunciate (“la bestia dimorata nel petto //… aspetto che mi divori e che lasci i miei resti sul cuscino”), a volte da immodificabile autolesionismo, a volte ancora patita in un sofferto rapporto di coppia.
La parola anfibia potrebbe infatti essere letta anche come un piccolo canzoniere amoroso, perché la presenza dell’amante è un “tu” che si rivela prezioso e insostituibile (“Tu, a cui affido il mio tremore”, “Io e tu / mai interamente compiuti / due polmoni affaticati / due occhi da neonati”), eppure velata da una sinistra premonizione, dal timore di un inevitabile allontanamento futuro. I due sembrano entrambi consapevoli della reciproca estraneità caratteriale, che induce lei a confessare l’impossibilità di un raggiungimento: “Tu dici Realtà / Io dico Pietra”, “Tu invece della vita hai fatto inconsistenza / cerchio mobile / soffio”. Tuttavia, la possibilità di una rinascita, di un recupero del rapporto viene affidato, ancora una volta, alla parola che è capacità di incontro e confronto nel canto, nel ritrovarsi di una voce poetica che accomuna e guarisce: “Risorgere, tu ed io, / come cicale”.
Attraverso un dettato aspro e frantumato, i versi di Vanna Carlucci (Bari 1987) trovano la giusta rispondenza alla sperimentazione dolente e ruvida della realtà, interiorizzata nel suo severo offrirsi all’interpretazione di un’acuta sensibilità poetica.
© Riproduzione riservata «La Poesia e lo Spirito», 15 ottobre 2024