BENJAMIN TAMMUZ, IL FRUTTETO – E/O, ROMA 2014

Benjamin Tammuz (1919-1989), nato in Russia da famiglia ebrea trasferitasi nel 1924 in Palestina, laureato in legge e scienze economiche all’università di Tel Aviv e, più tardi, in storia dell’arte alla Sorbona di Parigi, è stato a lungo redattore della pagina letteraria del quotidiano israeliano “Ha’aretz” e per quattro anni attaché culturale dell’ambasciata di Israele a Londra. Autore prolifico di narrativa anche per l’infanzia, ha ricevuto diversi riconoscimenti letterari internazionali. In Italia sono stati pubblicati dalle edizioni E/O Il minotauro (giustamente celebrato a livello mondiale), Il re dormiva quattro volte al giorno, Londra, Requiem per Naaman, e Il frutteto, edito in patria nel 1972 e tradotto da noi nel 1995, con successive ristampe.

Quest’ultimo romanzo, accolto dalle critiche positive di Domenico Starnone ed Erri De Luca per la sua capacità di narrare decenni di convivenza e di massacri nel Medio Oriente, esibendo rispetto per vinti e vincitori alla ricerca delle ragioni di entrambi, è una parabola sulla rivalità sentimentale ed economica che può scavare baratri sanguinosi tra consanguinei, trasformando l’odio familiare in feroci contrasti ideologici.

Ovadia e Daniel sono due fratellastri, nati dallo stesso padre, facoltoso possidente terriero ebreo, vissuto tra l’Oriente arabo e la Russia, e da due madri diverse: una plebea turca, brutalmente liquidata dopo la nascita del primo figlio illegittimo, e un’aristocratica ebrea russa, condotta orgogliosamente all’altare e poi ossequiata in una lussuosa residenza insieme al secondogenito. Ovadia, da subito ostile sia al padre sia alla matrigna e al fratello minore, si allontana dalla casa paterna trasferendosi in Palestina, ostentando la sua origine araba con il nome di Abdallah, e trovando lavoro come capo giardiniere in un frutteto di proprietà della famiglia di Mehmet Effendi.

“Era un agrumeto sterminato, di aranci e limoni; c’erano persino dei cedri. In mezzo, e ai lati, erano piantate alcune file di fichi e melograni”. Fitto, intricato, invaso alla base da vegetazione secca e pungente, Ovadia si intestardisce a coltivarlo, preservandolo dall’invasione di cavallette che danneggia i possedimenti circostanti, spinto soprattutto dalla passione sensuale che lo lega alla figlia sordomuta dei proprietari, Luna.

Gli anni sono quelli della prima guerra mondiale, critici per l’esportazione dei prodotti agricoli in Europa e per la temuta invasione delle truppe inglesi in Medio Oriente. Quando, a causa dell’improvvisa malattia invalidante di Mehmet Effendi, il frutteto deve essere venduto, arriva via mare al porto di Giaffa il fratellastro Daniel, giovane ventenne “dall’espressione chiara, onesta e determinata, l’espressione di uno che non ha niente da nascondere”, divenuto ricchissimo dopo la morte di entrambi i genitori. Educato nel culto di Israele e della lingua ebraica, il sogno che lo anima è non solo quello di insediarsi nella terra dei suoi avi, ma soprattutto di trovare l’anima gemella, di cui fantastica dall’adolescenza. Avvicinato dall’agronomo-sensale (voce narrante del romanzo) cui è affidata la vendita del frutteto, accoglie con entusiasmo l’idea di acquistarlo, pronto a firmare il contratto davanti al proprietario ormai moribondo. L’incontro con Luna, apparizione incantevole nella sua misteriosa seduzione, si rivela oltremodo sconvolgente per Daniel, che subito si candida ad acquirente della piantagione e della casa, chiedendo in moglie la giovane donna. L’incontro, inaspettato e disorientante, con il fratellastro Ovadia, con cui i rapporti si erano interrotti molti anni prima, segna una cesura nella narrazione fino a questo punto solenne e pacata, e l’andamento del romanzo assume un ritmo più concitato e ansiogeno. Nelle vene di Ovadia scorre sangue arabo, in quelle di Daniel sangue ebreo: in loro due religioni e due culture millenarie si confrontano, scontrandosi fino all’annullamento reciproco. E se il pretesto è sempre esterno (il matrimonio di Daniel con Luna, la nascita di un figlio, la relazione clandestina di Ovadia con la cognata, la resa produttiva del frutteto, i continui pogrom antiebraici, lo scoppio della seconda guerra mondiale), in realtà le motivazioni profonde della loro ineliminabile inimicizia rimangono più radicate e crudeli.

 

© Riproduzione riservata         «SoloLibri», 17 novembre 2024