SERGIO GIVONE, LA RAGIONEVOLE SPERANZA –SOLFERINO, MILANO 2025
In sette capitoli e in un documentato repertorio di note, il filosofo e romanziere Sergio Givone (Buronzo, 1944) affronta il tema del dopo-morte, e lo fa riprendendo argomenti che gli sono cari (cfr. Storia del nulla, Favola delle cose ultime, Non c’è più tempo, Sull’infinito), però qui con un diverso stile aforistico, dal tono ansante, ispirato, rapito nell’immersione di un’idea.
La ragionevole speranza, si intitola il suo ultimo libro pubblicato da Solferino, indicando un’esplicita posizione teorica: di per sé, la speranza non si posa sulla ragione, ma si affida a un moto del sentimento, che in quanto tale è irrazionale; l’autore alterna l’attributo definendola a più riprese sia ragionevole sia illusoria, o addirittura disperata. Sperare cosa, quindi? Di sopravvivere, di permanere nell’essenza (nella coscienza) individuale dopo la morte, questione su cui da millenni si interroga il pensiero filosofico, insieme alla letteratura, all’arte, alla musica.
Le pagine del volume si aprono descrivendo la cerimonia funebre del fumettista Sergio Staino, avvenuta al Palazzo Vecchio di Firenze nel 2023, in cui tutti i presenti auguravano all’amico defunto un “buon viaggio” in compagnia dei sorrisi che aveva saputo dispensare in vita attraverso lo spirito caustico del suo eroe Bobo. Si può ridere della morte, di questo evento “impenetrabile come una pietra … muro contro cui si va a sbattere” ineluttabilmente, mettendoci di fronte al non essere più? Givone tenta un alleggerimento della negatività iniziale commentando la necessarietà di finire “per lasciare spazio ad altri. Magari sapendo che prima lo si fa, meglio è. È dimostrato. Più in lungo la si tira, più amaro il calice che tocca bere”.
Si può ridere della morte per la gioia di essere comunque stati vivi, di aver goduto di momenti intensi di felicità e altri di incomparabile tristezza, di avere amato e odiato, partecipando al destino comune a tutte le creature. Da sempre si fronteggiano due modi opposti di porsi di fronte al limite estremo dell’esistenza: si può accettare la propria caducità, riconoscendo che nulla e nessuno sopravvive per sempre. Oppure si può credere che la vita individuale persista aldilà della sua conclusione fisica, aprendosi a una realtà diversa e superiore, per quanto inconoscibile e indefinibile.
La lieta e futile concretezza del libertino, la consapevolezza della finitudine del materialista si oppongono alla fede del mistico che rifiuta il limite, proiettandosi in un infinito, per lo più rivestito di sembianze divine. “Venuti al mondo, la sola cosa certa è che dovremo lasciarlo. Per finire dove? Nel nulla o in Dio?”, si chiede Givone, illustrando le tesi che hanno contrapposto i filosofi già dagli albori del pensiero umano.
Il primo a parlare di infinito fu il presocratico Anassimandro, che in un frammento così poetava: “Principio dei viventi è l’infinito […] là dove i viventi hanno la loro origine, là trovano la loro dissoluzione necessariamente: essi infatti pagano il dovuto gli uni agli altri ed espiano l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Ma ad Anassimandro si opponeva Democrito, a Parmenide Eraclito, a Platone Aristotele, agli orfici Epicuro. Per Pindaro la vita è fugace, eppure luminosa (“Effimeri siamo: cos’è qualcuno? / cos’è invece nessuno? Sogno di un’ombra / è l’uomo. Ma se un lampo giunge, disceso dal cielo, / allora splendida luce gli uomini investe, / e dolce diviene la vita”). Per il Qoèlet biblico tutto è vanità, per il Cantico dei Cantici tutto è amore, Lucrezio era ateo e materialista ma celebrava la grandezza della natura, Plotino credeva nel ritorno all’Uno e si vergognava di essere in un corpo…
Via via nel corso dei secoli si è approfondito il contrasto tra spiritualismo e positivismo, tra caso e necessità. Pascal scommetteva su Dio, convinto che “se la porta della trascendenza resta aperta, allora possiamo sperare di avere una risposta alla domanda sul senso della vita”. Lo contraddiceva Montaigne, che pur nella disillusione metafisica era commosso dalla fragilità umana. A Vico si oppone Cartesio, a a Rousseau Voltaire, Manzoni a Leopardi, a Hegel Marx, contro Nietzsche combattono James e Bergson, Jung contesta Freud. Tutti con l’angoscia di capire, di spiegare a sé stessi e agli altri l’origine e la fine delle vite individuali, l’apparire e la dissoluzioni di intere civiltà nel corso della storia.
La Grundfrage di Leibniz e Schelling (“Perché c’è qualcosa? Perché non c’è il nulla?”) rimane inevasa, dopo secoli di ricerche scientifiche, di riflessioni teologiche, di preghiere e di bestemmie. L’anima, la bellezza, la verità, la grazia sono concetti che riconducono all’idea indimostrabile di Dio; l’odio, la malvagità, la malattia, lo sfruttamento, la dipendenza ribadiscono la nostra condanna al limite e all’infelicità. Schiller incoraggiava a resistere: “Abbiate il coraggio della sofferenza, / soffrite per il mondo a venire. / Al di sopra del cielo stellato / l’Infinito sarà la ricompensa”.
Quale ricompensa, e quale pena? Il paradiso o l’inferno?
Sergio Givone dedica l’ultimo capitolo del libro all’idea di immortalità dell’anima, oggi misconosciuta e contestata a livello filosofico, quanto quella del giudizio finale ultraterreno. Dibattuta dai mistici medievali (Silesius: “So che senza di me Dio non può vivere un istante: se io divento nulla, deve di necessità morire”) come dagli spiriti più intensamente e laicamente religiosi (Simone Weil: “Bisogna morire – morire nell’anima – per accedere a una dimensione di conoscenza e di verità, diciamo pure di immortalità”), l’immortalità dell’anima si scontra con l’ipotesi quasi scandalosa di una condanna perpetua (“Un’eternità dove tutto è pianto e stridor di denti, da una parte, e tutto è gioia e osanna, dall’altra, mette Dio in stato d’accusa”). Paradiso e inferno allora vanno derubricati a semplice “ammonimento per chi ha mal vissuto e incoraggiamento per chi ha ben vissuto”, a leggenda ormai razionalmente ripudiabile? Idea soppiantata da quella più nobile e generosa dell’Apocatastasi – cioè di una rigenerazione e redenzione totale dell’esistente nella perfezione originaria dell’inizio, ritrovata alla fine dei tempi–, intuita da Origene, discussa dai Padri della Chiesa, difesa da Giordano Bruno e ripresentata come necessaria da Luigi Pareyson, maestro di Givone, come promessa di un paradiso aldilà del paradiso, aldilà di tutto…
Il suo allievo, autore di questo intenso libro, la accoglie con il monito di Marguerite Yourcenar “cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”, e con l’invocazione dell’ultima canzone di Leonard Cohen “I’m ready, my Lord”.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 18 aprile 2025