PATRICIA HIGHSMITH, GENTE CHE BUSSA ALLA PORTA – BOMPIANI, MILANO 2012
Gente che bussa alla porta di Patricia Highsmith, (Bompiani, 2012 con traduzione di Attilio Veraldi – ma negli USA è uscito nell’83), non risponde all’impianto tipico e ormai obsoleto del giallo classico. Si tratta, piuttosto, di un romanzo psicologico e d’ambiente che affronta uno dei problemi più assillanti della società odierna: la questione delle sette religiose e del fanatismo dei loro adepti. In una piccola città del Midwest, una tranquilla famiglia della middle class americana si vede improvvisamente sconvolgere l’esistenza dall’ostinata volontà di proselitismo e dal moralismo bigotto dei fedeli di una nuova chiesa. E’ «gente che bussa alla porta» con presuntuosa invadenza, nel desiderio di redimere e convertire i numerosi miscredenti della comunità cittadina.
La famiglia cui la Highsmith presta voce e carattere è ovvia nella sua tipicità piccolo-borghese. Il padre, Richard Alderman, agente assicurativo con orizzonti intellettuali e culturali assai limitati, vive saldamente abbarbicato ad alcuni indiscussi e indiscutibili principi di vita: risparmio, ubbidienza, conformismo. La madre Loris lo asseconda benevola e indulgente, più critica di lui rispetto alla falsità di questi miti, ma altrettanto incapace di contrastarlo o di prendere posizione. I due figli adolescenti, Arthur e Robbie, si sopportano a malapena, diversi come sono nel carattere e nelle ideologie. Arthur è un diciassettenne aperto e responsabile, molto versato per la biologia e futuro borsista in un college di prestigio, innamorato di una dolcissima coetanea; Robbie è invece il classico ragazzo difficile, introverso e infantile, nevrotico e misogino. Proprio una grave malattia di Robbie, risolta miracolosamente per gli effetti delle preghiere del padre, induce quest’ultimo ad aderire alle vischiose pratiche di un oltranzista movimento religioso della sua Chiesa.
Tutta la famiglia Alderman diviene così oggetto, testimone e protagonista insieme di una trasformazione capillare dell’esistenza quotidiana, di un bombardamento ossessivo di riti e pratiche di culto quasi superstiziose, nella negazione totale di qualsiasi possibilità di discussione o dissenso. La casa è invasa da pubblicazioni di stampo millenaristico (antievoluzionista, antifemminista, antitutto), frequentata dai soggetti più disparati (predicatori imberbi e brufolosi, preti aggressivi e donne equivoche perennemente sulla via della redenzione), e tra i membri della famiglia i rapporti si incrinano fino all’imbarbarimento totale. La ragazza di Arthur rivela di essere incinta e di voler abortire, provocando la reazione furiosa del padre di lui, che perseguita il figlio con ricatti e minacce, lo indica alla pubblica riprovazione e alla condanna dei suoi confratelli e infine lo allontana da casa.
Tanta protervia esteriore, tanto esasperato moralismo di facciata non corrisponde tuttavia a una condotta altrettanto cristallina nel privato, se la prostituta aiutata e protetta dall’integerrimo Richard Alderman si dichiara improvvisamente gravida di lui. Robbie, nella sua estrema fragilità psicologica, reagisce morbosamente allo sgretolamento dell’idolo paterno, e durante un litigio, scarica sul padre la sua carabina da caccia. Gli avvenimenti precipitano: Robbie viene rinchiuso in un carcere minorile, la madre e Arthur decidono di trasferirsi in una cittadina dell’Est. E’ la vittoria del buon senso, della morale laica e pacata dei più contro il misticismo intollerante di pochi, ipocriti savonarola in blue-jeans.
Patricia Highsmith ha costruito un romanzo a tesi, di alta tensione civile, sfruttando abilmente la sua capacità di inventare situazioni e personaggi credibilissimi, che agiscono a un ritmo serrato e intessono dialoghi convincenti, mai letterari. In uno stile curato e lieve, visivamente interessato alla superficie più che alla profondità, molto americano.