IZET SARAJLIC’, CHI HA FATTO IL TURNO DI NOTTE – EINAUDI, TORINO  2012

Izet Sarajlic’, nato nel 1930 e morto nel 2002, è stato forse il più noto poeta bosniaco del 900, grazie anche all’immediatezza della sua scrittura, lontana da ogni intellettualismo e artificiosità letteraria. La sua esistenza ha attraversato due guerre sanguinose, la seconda mondiale e quella della ex Jugoslavia, perdendo in esse parenti stretti e amici cari, abitazioni e sicurezza economica, libri e pagine scritte. Ma nei suoi versi parla di queste tragedie con una sorta di pacata accettazione, accentuando soprattutto l’aspetto sentimentale dei suoi rapporti umani, la vitalità degli affetti che perdurano anche e nonostante i cataclismi storici. Così, il fil rouge che segna i cinquant’anni della sua poesia è senz’altro l’amore unico e insostituibile per la moglie, dagli anni giovani alle visite bagnate dalla pioggia alla tomba di lei, in versi commossi: «Un immortale agosto ti ha portato nelle mie ballate», «al cinquecentesimo chilometro dell’amore / ti amavo esattamente come al primo», «da quando sei andata via tu / è come se fosse andata via anche la città», «Cosa facevo io mentre durava la storia? / Mi limitavo ad amare te».

Talvolta tuttavia eccedendo in qualche banalità, od effetto troppo facile: «In questa tristezza che ci opprime entrambi, / e io piango, piango, piango, / perché sono tempi duri per l’amore, sempre più duri», «In quest’anima si è ammucchiata / tanta tristezza, /tanta delusione, / tanta amarezza, / tanta disperazione», «Oggi per me è importante ogni giorno / in cui ti posso guardare».

Alcune sue soluzioni stilistiche potrebbero ricordare Prévert, o un nostro Saba alquanto diluito: manca del tutto il senso del tragico, e ogni descrizione appare sospesa in una levità lontana dalle passioni. Quindi anche Auschwitz e Sarajevo sono vissute attraverso le sofferenze particolari di una sola anima, e non dei destini collettivi di un popolo. Qualche accennata ironia si riserva alle incongruenze e al conformismo della cultura letteraria, mentre il rimpianto è tutto per il tempo dei sentimenti che fugge: «La vita è trascorsa, e se ne va via. / Resta da scriverci una poesia», «L’epoca della grande arte è passata. // Io / almeno / c’ho vissuto dentro». E rimane comunque in chi legge questi versi l’impressione di cantabilità e semplicità eccessive, di un sentimentalismo esibito, di un consapevole e orgoglioso rifiuto dell’elaborazione linguistica, quale invece si presuppone in un poeta contemporaneo. Erri De Luca, nella sua partecipe prefazione ( in cui come sempre riesce a parlare di se stesso anche quando deve parlare di un altro) afferma: «In un poeta cerco, esigo che la sua vita sia all’altezza della sua pagina»». Giustissimo: ma anche la pagina deve essere alta.

 

«Atelier» n.65, marzo 2012