Mia Lecomte si occupa di letteratura transculturale italofona e in particolare di poesia. Poeta, narratrice, autrice di teatro e per bambini, tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano le raccolte poetiche Terra di risulta (2009) e Intanto il tempo (2012).
- Ci vuoi dare alcune coordinate sulla tua vicenda biografica, a partire dalle tue origini familiari, fino alla tua esistenza attuale?
Sono nata a Milano e cresciuta in Svizzera. Ho fatto i miei studi universitari a Firenze e poi ho vissuto più di vent’anni a Roma, residenza che ora divido con Parigi. Ho tre figli – sparsi tra Italia, Inghilterra e Francia – e altrettanti gatti. Mio padre Yves era francese, un poeta, e devo a lui molto di quello che faccio, di quello che continuo a scegliere di essere.
- In campo specificamente letterario, di cosa ti occupi e su quali fondamenta hai radicato la tua scrittura?
La mia scrittura è totalmente “sradicata”, e questa è forse la sua caratteristica principale. È nata in famiglia, appunto, con mio padre, dalla traduzione dei suoi testi poetici dal francese, a cui mi chiedeva quotidianamente di partecipare. E dunque come transito, e tra le mura di una casa, di un paese, che dovevano essere una scelta provvisoria, una situazione di passaggio prima di stabilirci definitivamente in un ben identificato altrove. Una situazione di confine, sul confine, in cui gli unici elementi certi erano appunto l’affetto, la complicità, che passavano in questo scambio esclusivo di parole. Il resto è venuto da sé: la mia poesia, appunto, ma anche la narrativa per bambini e non, e il teatro; e gli studi di comparatistica approdati alla letteratura della migrazione italofona, di cui mi occupo, editorialmente e accademicamente, da moltissimi anni. Tutto questo accumunato, come dicevo, da una relazione intima, “amorosa” con la parola, in tutte le sue incarnazioni, volutamente lontano dai luoghi, più o meno di potere, che mi sembrano sfruttarla, violarla.
- Se anche attiva in ambito teatrale: quali sono i risultati che più ti hanno dato soddisfazione e invece in quante difficoltà ti sei imbattuta?
Amo molto in teatro, nei miei primi anni romani mi sono molto divertita a scriverne e abbiamo realizzato diversi spettacoli. Ma mi piace moltissimo anche la musica, cantare, e la danza – di tutti i generi, a un certo punto ho perfino rischiato di diventare una ballerina di flamenco!… – e ora ho convogliato tutte queste passioni nella Compagnia delle poete, che ho fondato nel 2009 e di cui sono membro. Si tratta di una compagnia, appunto, poetico-teatrale di una ventina di autrici, tutte straniere e accumunate dalla scrittura in italiano: www.compagniadellepoete.com. La Compagnia è stata anche lo sbocco naturale di anni di studio di questa nuova poesia italiana – la vera avanguardia della poesia italiana, a mio parere –, e un modo per riportare la poesia a un pubblico reale, di restituirla alla sua funzione di oralità “condivisa”. E di farlo tra amiche, in un contesto, ancora una volta, affettivo – Armando Gnisci ha definito la Compagnia «il luogo mobile della creatività e della concordia» –, en famille.
- Come traduttrice, in quali autori ti sei più riconosciuta?
Non saprei. Non traduco molto. E solo poesia contemporanea. Fra gli ultimi poeti in cui mi sono cimentata, potrei citare l’haitiano James Noël per la grande originalità della sua poesia, proposta inoltre, come mi piace, con il generoso coinvolgimento di altri artisti, nel rimescolamento con altre arti.
- Quali sono le tue pubblicazioni più recenti e quale, in assoluto, quella a cui tieni di più?
L’ultima mia raccolta poetica, Intanto il tempo, era del 2012, e nel corso del 2016 arriverà la prossima, Al museo delle relazioni interrotte.
Ma tengo moltissimo al mio ultimissimo libro, appena uscito per Quarup, piccolo e raffinato editore di Pescara: Cronache da un’impossibilità. È una raccolta di racconti più o meno recenti, scritti nel corso degli anni “in margine” alla poesia. Trattano tutti di situazioni impossibili, amorose in particolare, riconducibili ad un’unica impossibilità: quella di essere, di esserci. Insomma, sono tutte autobiografie non vissute – come si intitolava una mia raccolta poetica del 2004 – , ma confesso che il fatto che siano esposte in una pubblicazione, mi crea anche un certo imbarazzo, disagio. Abituata ai travestimenti, anche solo musicali, della poesia, ritrovarmi così, in déshabillé, alla mercé del racconto, mi riporta di colpo al panico dell’adolescenza, nascosta nella toilette di una festicciola… Ti sto leggendo, mi dicono gentilmente gli amici, e non sanno fino a che punto, e con che conseguenze, sia vero.
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22 dicembre 2015