Ricordo di Giorgio Messori a dieci anni dalla morte
Nel volume di Giorgio Messori Storie invisibili c’è un racconto intitolato La neve a Zurigo. E’ il primo che ho letto, con commozione particolare, perché io ho conosciuto Giorgio proprio a Zurigo, e dopo di allora ci siamo persi di vista. Insegnavo italiano per il Consolato dal 1978, lì vivevo con mio marito Siro Angeli e con le nostre due bambine. Il lavoro che svolgevo non era gratificante, ma era molto ben retribuito, e mi dava la possibilità di vivere con relativa tranquillità la mia non facile situazione familiare in una città bella, efficiente, ricca.
Giorgio era capitato a Zurigo nell’86, per una supplenza nei miei stessi corsi di Lingua e Cultura Italiana a livello medio. Ne parlava un poco nel suo racconto: «Ogni pomeriggio andavo a scuola e dovevo sempre trattenere la nausea per cominciare a lavorare. La nausea mi veniva perché gli studenti erano difficili da trattare. Tutti figli di emigrati italiani, si davano continuamente manate sulle spalle e sputavano per terra». In effetti, l’insegnamento in terra straniera non dava grandi soddisfazioni: gli alunni non venivano in classe volentieri, in genere costretti dai genitori, che a loro volta riversavano sui corsi di italiano le loro frustrazioni e aspirazioni. Insegnanti e bidelli svizzeri ci erano ostili, e spesso capitava di fare lezione negli scantinati o in aule improvvisate. Ma tutti noi, chi più chi meno, eravamo lì per una scelta imposta da circostanze esistenziali di non semplice soluzione. Scriveva bene Giorgio: «Anch’io in fin dei conti, ero finito a Zurigo per allontanarmi da qualcosa. Il mondo è pieno di gente che scappa e lascia ricordi».
Ma la città ha un suo fascino discreto e accattivante, sia d’inverno sia nella stagione più calda. E Giorgio si era impadronito di questa seduzione silenziosa e sottile; lui e Zurigo si assomigliavano abbastanza: «Camminavo sul lago tra i gabbiani, i capelli al vento, e mi sentivo padrone di una mia città personale. Preferivo andare sul lago perché il cielo era più aperto, entrare la sera in un bar mi faceva sentire troppo solo, seduto su uno sgabello assediato dagli altri. Camminavo lungo il lago anche se pioveva. Non c’era quasi mai nessuno, solo qualche vecchietta che veniva a dar da mangiare ad anatre e gabbiani. I cigni li odiavo, col loro collo lungo cercavano sempre di fregare le anatre. Mi mettevo anch’io a guardare queste zuffe, insieme alle vecchiette che le provocavano, ed ero contento. Poi proseguivo e riposavo lo sguardo sull’acqua, sulle colline color ruggine, le sculture moderne sopra i prati verdi. Era bella Zurigo anche se pioveva, quasi meglio perché c’era ancor meno gente e la luce era meno sfacciata».
L’incontro con Giorgio era avvenuto a casa mia nella primavera dell’86, con una specie di irruzione in quell’appartamento di Berninastrasse da parte di un gruppo di amici: Giorgio, appunto, e poi Beppe Sebaste, Vivian Lamarque, Livia Candiani e il suo compagno. L’occasione era stata offerta dal quarantesimo compleanno di Vivian, che ci frequentava già da molto tempo, e che avevamo voluto festeggiare in un modo un po’ diverso dal solito. Io e Siro vivevamo una vita abbastanza riservata e solitaria, lui scriveva e nelle ore pomeridiane, quando io lavoravo, si occupava delle bambine (Silvia allora aveva solo un anno, Daria frequentava le elementari): io insegnavo e mi dedicavo all’andamento familiare. Ci frequentavano pochi amici e colleghi, raramente ricevevamo visite dall’Italia, e talvolta l’Istituto di Cultura ci affidava qualche ospite da portare in giro per la città o da intrattenere per qualche ora.
Ricordo dunque quella giornata con nitidezza e simpatia, era stata piacevole e riuscita, ed è ancora immortalata da alcuni scatti fotografici.
Avevamo preparato per Vivian una torta alle fragole e panna, con le candeline: e lei era particolarmente felice e un po’ eccitata dalla trasferta elvetica. Livia e compagno sembravano quasi spaesati ma incuriositi dalla novità dei luoghi. Beppe mi era parso subito entusiasta e trascinatore. Ma Giorgio in particolare mi aveva colpito, per la sua silenziosità e malinconia che me lo aveva subito reso simile: aveva un’aria quasi distratta e estraniata, si avvicinava a cose e persone forse con la paura di disturbare, di essere di troppo. Fumava molto.
Nel pomeriggio avevamo fatto un giro ricognitivo della città, e poi, soprattutto per fare felice Vivian (in quegli anni affascinata dagli studi di e su Jung), ci eravamo dedicati a un pellegrinaggio nei luoghi junghiani sparsi per tutto il cantone. Quindi eravamo capitati a Bollingen, nel basso lago, dove tuttora esiste la bellissima casa dello psicanalista svizzero, abitata dagli eredi. Era una costruzione severa, nubilosa, con un vasto giardino lambito dalle acque del lago: ricordo i salici aggrappati a un terreno in pendio, con i rami fronzuti che pendevano bagnandosi in basso, e poi altra vegetazione scomposta e varia. Ci incuriosiva particolarmente, però, l’ interno della villa, ed era stato Beppe Sebaste, il più coraggioso e intraprendente tra noi, a incaricarsi di chiedere ai parenti di poter entrare per dare un’occhiata alla sacralità delle stanze private. Ci aveva aperto una pallida e bionda ventenne, evidentemente la pronipote di Jung, molto carina e forse un po’ stanca dell’invadenza dei curiosi, quasi renitente a concederci il permesso ambito. E Beppe per convincerla, nel suo trascinante entusiasmo, aveva concluso la sua perorazione dicendo: «Wir sind alle Schrifsteller!» (Noi siamo tutti scrittori!). Ricordo che allora il mio imbarazzo davanti a tanta orgogliosa consapevolezza aveva trovato riscontro nell’espressione intimidita di Giorgio, evidentemente a disagio di fronte all’esibizione dichiarata di una nostra pudica aspirazione. La giornata si era conclusa in una specie di osteria, a bere qualcosa e a raccontarci i nostri sogni. Forse in quella occasione Giorgio e Beppe ci avevano regalato i primi volumi pubblicati dalla casa editrice che avevano fondato a Reggio Emilia: Aelia Laelia.
Nei mesi successivi, ottenuto l’incarico di insegnamento dal Consolato, Giorgio era venuto quattro o cinque volte a trovarci, e si era trattenuto a con noi a cena. Parlava pochissimo di sé, e sempre con trattenuto pudore. Non ci ha mai raccontato, per esempio, del suo amore svizzero, la dolce hostess della Swiss Air di cui scrive nel racconto. Né siamo mai stati nel suo appartamentino periferico, con la portinaia curiosa, che lo amava perché era «Uno straniero che non somigliava agli italiani che conosceva…uno che ascolta la musica a volume bassissimo, si muove sulla moquette in punta di piedi, non sposta i mobili di notte». In genere si limitava ad ascoltare le lunghe confidenze di Siro sul suo passato di dirigente Rai: gli piaceva stare a sentire dei suoi incontri con scrittori famosi, o le memorie della guerra e del dopoguerra. Io mi limitavo a preparare in cucina, o a tenere occupate le bambine perché non disturbassero.
Mi torna in mente però un episodio, di quando una volta eravamo intenti alla conversazione, mentre la piccolina dormiva e Daria guardava alla tivù ticinese il film Matrimonio all’italiana, e dopo un po’, forse spaventata dalla turbolenza dei rapporti dei protagonisti, si era avvicinata al tavolo e ci aveva chiesto: «Ma i matrimoni in Italia sono tutti così?». Ritrovo nella mente la risata di Giorgio, che per la prima volta vedevo disteso e divertito.
Tra noi parlavamo soprattutto dell’insegnamento, e poco della nostra scrittura: solo una volta ho osato regalargli un mio volume di poesie, attendendo con ansia e timore il suo giudizio. Che è stato poi espresso in questi termini: «Mi sono piaciute perché sono poesie chiare», e non ho mai capito se quel “chiare” volesse dire, come speravo, “luminose” o, come temevo, “troppo semplici”. Non credo che, prima di partire, Giorgio sia venuto a salutarci. Non ci siamo più sentiti per anni, credo non abbia nemmeno saputo della morte di Siro, o comunque non me ne ha dato sentore. Poi, improvvisamente, e non so attraverso quali canali, ho ricevuto una telefonata dalla sua casa editrice che mi annunciava l’invio del suo romanzo Nella Città del Pane e dei Postini, in cui si ricordava di noi, delle nostre cene, e ne parlava con affetto. Infine, l’anno dopo, il suo editore Alessandro Scansani mi comunicava la sua dolorosa e prematura morte, avvenuta nel 2006, per un tumore al cervello. Lasciava una giovanissima moglie e un bambino di un anno, alcuni volumi di narrativa e di critica.
Molte persone attraversano le nostre vite come meteore, alcune facendoci del bene, altre del male, altre ancora lasciandoci impressioni lievi, di tranquilla indifferenza. Ma Giorgio, nei pochi incontri che abbiamo avuto, è riuscito a regalarmi di sé un ricordo indelebile perché delicato, incapace di malignità, quasi sospeso tra realtà e pensiero. Di questo gli sono grata.
Opere di Giorgio Messori:
L’ultimo buco nell’acqua, racconti brevi (con Beppe Sebaste), Aelia Laelia, Reggio Emilia 1983
Nella città del pane e dei postini, Diabasis, Reggio Emilia 2007
Viaggio in un paesaggio terrestre, Diabasis, Reggio Emilia 2007 (con Vittore Fossati)
Storie invisibili e altri racconti, Diabasis, Reggio Emilia 2008
Fin dove può arrivare l’infinito, Skira, Milano 2012 (con A.C. Quintavalle)