DAVIDE BRULLO, S – MARIETTI, MILANO 2010
La sinuosa S che dà il titolo a questo eccellente libro (romanzo? meditazione filosofica? diario? affresco immaginoso? epistolario?) di Davide Brullo, potrebbe alludere a una marea di significati diversi. Forse indica l’iniziale di un nome di donna (l’amata, l’odiata, la sola immaginata…) o di un figlio (il Samuele bambino cui si deve il disegno della tartaruga in copertina) o di un luogo (e allora la mitica e irraggiungibile Samarcanda, o l’infernale carcere di Sing Sing). Ma potrebbe anche voler suggerire salvezza, sesso, satana, serpente, sacrificio, storia, speranza, silenzio, sortilegio, specchio, schizofrenia, sofferenza, strategia, suicidio («Debbo sempre ringraziare mio padre: il suo suicidio ha concesso il mio esordio nella storia – o la mia definitiva espulsione: la sua morte è la sola garanzia della mia regalità. Senza di essa non sarei nulla, da allora sono costretto a riscattarla, forzandomi a vivere»). E la condanna a vivere è per Brullo anche costrizione ad esprimersi sulla pagina, attraverso la scrittura: che salva e vendica, inchioda ed esalta. «S» come scrittura, quindi, celebrazione della parola intesa come Verbo, unica possibilità di incarnazione e immortalità («le parole sono gesti inesorabili», «Alcuni pensano che la scrittura dovrebbe far esplodere le cose, i corpi, espanderli fino all’irragionevole: io so che deve contenerle, custodirle come dentro un astuccio in cui si strofinano anelli», «Una scrittura che afferma, precisa e superiore come un ordine, non reclama un lettore ma un fedele»). Custode del miracolo dell’ espressione, artefice di una creazione che lo assimila a un dio minore è quindi lo scrittore, il poeta, il regista che sa intrecciare frasi e immagini in un caleidoscopio vorticoso e assillante di emozioni e turbamenti, cui si deve negare solamente il rigor mortis dell’imperturbabilità, dell’indifferenza, della freddezza. «S», dunque, soprattutto come «sé» . E il libro di Davide Brullo è un gigantesco monumento, una narcisistica, ammirata, ansiosa ricostruzione ed esaltazione del proprio io psichico, della propria coscienza di uomo e artista: vita brulicante e malattia paralizzante, animali e cose, infanzia e senilità, corruzione e nobiltà, bene e male, persino dio, sembrano vivere in funzione della rappresentazione dell’occhio implacabile, feroce, di chi li descrive, distruttivo e violento anche nei riguardi di se stesso. Una sorta di Zarathustra «radicale… intransigente», animato da una «truce ossessione», è il ritratto che Brullo offre di sé:
«Sono inappagato e famelico», «domando l’inconcepibile, pretendo l’inafferrabile…. pretendo devozione», «non sopporto le cose parziali, interrotte, misere», «so di essere incapace e inadempiente, per questo sono superbo»», «non posso pensare a una creatura che non abbia il mio volto», «ogni mio giudizio è infallibile, inappellabile», «Semplicemente, ambisco al genio, ed esso, nella sua ambivalenza e tirannia, si dimostra con perfezione nella scrittura», «La mia qualità è quella di essere un uomo espulso dalla storia: pervertendo ogni idea di destino sono immune alla pena e alla compassione…». In questa ansiosa bramosia di assoluto, in questo totale e ossessivo scorticamento di sé e del reale, insofferente di qualsiasi tenerezza e indulgenza, Davide Brullo incide con l’analitica cupezza di un anatomopatologo il rapporto con ogni alterità. L’amore assume contorni cannibaleschi e onnivori, in uno sbranamento reciproco che non lascia alcuno spazio alla leggerezza, all’affettuosa comprensione, alla delicata e rispettosa dedizione. Una vertigine dei sentimenti e della fisicità possiede gli amanti, scorporandoli dalle loro individualità per farne un essere unico e mitico, quale forse quello del Simposio: «Ti amo come se fossi il prototipo dell’uomo prima della caduta, poi abortito: come se tu fossi la valle e io l’eco che la stringe e crea. Ma ciò che ti dico non ha testimoni, è nostro. Concedimi questo spreco. Di essere mortale e assoluto, consumandomi ora, per te… Se ti dicessi che spero in una catastrofe di cui noi saremmo il solo resto, cosa penseresti? Probabilmente ci odieremmo, giungeremmo a sopprimerci, perché è l’impossibilità dell’unione a unirci, la perversione del tradimento a darci l’idea dell’ebbrezza e dell’eternità».
Il mondo intorno assume allora i caratteri apocalittici di un day-after, rovinoso e perturbante, in perpetua e orrifica metamorfosi, in cui persino gli oggetti più quotidiani (una tazza, un barattolo, una piastrella…) si deformano alterando i loro confini, trasformandosi in altri oggetti, corpi, animali. Le città, desolate in un’atmosfera kafkiana di solitudine metafisica, sono invase da colonie di insetti, lucertole, gabbiani, cani e lupi (o dal preistorico, minaccioso varano), che le costringono in scenari da incubo, da flagello biblico e maledizione cosmica: «Vedo scorrere sulla via, di fianco al cancello screpolato, moribondo, bestie impreviste. Creature che non ricordo di aver visto in alcun manuale, esseri che forse reclamano un creatore. Sfilano di fronte a me, in una marcia dimostrativa».
È straordinaria e ammirevole la maestria descrittiva di Brullo, la sua capacità visionaria di squadernare sotto gli occhi del lettore immagini di una concretezza quasi filmica, coinvolgendolo emotivamente, impressionandolo. Se poi la scrittura si concentra nell’analisi delle figure umane, ecco che da pura rappresentazione figurativa assurge a meditazione filosofica sull’imprescindibilità del male, sulla sua non riscattabile necessità. Vecchi e bambini dominano la scena del mondo, gli uni mortificati nel disfacimento repellente del loro corpo («Gli occhi della vecchia erano bianchi e vertiginosi, e nel loro incavo si era impiantata una colonia di formiche…»), gli altri vendicativi, crudeli, mutanti, in preda a istinti omicidi e distruttivi: non esiste innocenza, nell’infanzia descritta da Brullo, né pietà o solidarietà.
«A turno, manovrando un coltello di pietra, i bambini affrontarono il colpevole, stordito, estasiato, scavandolo ed estraendo un pezzo dal suo corpo. Roteavano, ebbri, ciascuno con il proprio coccio sanguinante, come se fossero mostri primordiali che illuminino il cosmo muto, sabbioso, impugnando stelle comete». Quali possono essere le radici di cui si è nutrita negli anni la scrittura così sapiente, meditata e vibrante di Davide Brullo? Senz’altro ritroviamo i toni appassionati dei profeti, da Isaia a Geremia, e le esaltate allucinazioni dell’ Apocalisse; ma anche l’indignazione dei mistici e dei predicatori medievali, e qualche immagine dantesca. E la lettura partecipe dei più noti narratori americani del 900, da Faulkner all’ultimo McCarthy; passando attraverso il rumeno Cioran di Squartamento, fino all’assorbimento di alcuni echi da Ceronetti e Sgalambro. Frasi severe, asseverative, pregne di un gusto gnomico per la sentenza, per l’aforisma dilatato in constatazione, in tesi teorica che non ammette deroghe o appelli. Alla densità compatta di questo libro, e all’altezza indiscussa della sua prosa, nuocciono forse una ventina di pagine finali, una sorta di memento composto da illuminazioni poetiche, simil-versi scanditi da trattini di separazione, che poco aggiungono alla ricchezza fremente delle pagine precedenti. Le quali trovano la loro disperante giustificazione in affermazioni come questa: «Non ho alcuna ambizione se non quella di estenuarmi, liberandomi dal carcere delle parole e della mia storia». Ovviamente non condivisibile da chi legge Davide Brullo, e si augura invece che lui continui a scrivere narrativa così nobile e coinvolgente, sofferta e imperiosamente rigorosa.
«Atelier» n. 68, febbraio 2013