DANIELE PICCINI: POETA, CRITICO LETTERARIO, FILOLOGO, DOCENTE UNIVERSITARIO
Daniele Piccini (Città di Castello, 1972) è filologo e poeta. Docente universitario e critico letterario, è autore di varie raccolte di versi. Dal 2007 è presidente dell’Istituzione Culturale “Museo – Biblioteca – Archivi Storici della città di Sansepolcro”. Nel 2008 ha ricevuto il Premio delle Pontificie Accademie. Collabora a Famiglia Cristiana e a La Lettura ed è redattore della rivista “Poesia”.
- Quale tra i tre ambienti in cui è cresciuto, si è costruito intellettualmente e opera professionalmente (Umbria, Milano, Napoli) ha contato di più nella sua formazione culturale?
Dal punto di vista degli studi, dopo gli anni del Liceo a Città di Castello, ho ricevuto la mia formazione a Milano, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Lì ho incrociato la mia passione essenzialmente letteraria con un tirocinio filologico, che poi ho cercato di far maturare. I luoghi della mia origine, tra Toscana orientale e Umbria settentrionale, sono stati d’altra parte fondamentali nell’impregnare la mia sensibilità e la mia immaginazione. Da una parte, a Sansepolcro, città della mia vita, ho sempre avuto negli occhi la maestà della Resurrezione di Piero della Francesca, che si può dire costituisca una sorta di continuo richiamo e appello. Dall’altra, i luoghi francescani e Perugia, la città di un autore che ho scoperto in età matura come Aldo Capitini, mi hanno richiamato a un sentimento creaturale che in fondo albergava profondamente in me. Alla Seconda Università di Napoli, precisamente a Santa Maria Capua Vetere, ho iniziato l’insegnamento universitario, prima di approdare a Perugia, mentre avevo svolto a Pisa il mio Dottorato di ricerca.
- In che modo e attraverso quali autori si è avvicinato alla poesia? Quali sono i poeti contemporanei che apprezza di più?
La prima folgorazione poetica è stata leopardiana. Le Ricordanze in particolare hanno sollevato uno sciame di possibilità e di suggestioni, con cui non ho mai finito davvero di fare i conti, compreso il dialogo con un ‘tu’ assente (Nerina, il cui fulgore brevissimo perdura oltre la fine). E penso così anche de Il passero solitario, di Alla sua Donna, di A Silvia, del Canto notturno… Posso dire che ho letto Montale come una prosecuzione del travaglio leopardiano, sia pure nell’agone di una lingua mutata, capace di attraversare tante esperienze (Pascoli, D’Annunzio, riprendendo il filo da Gozzano, senza trascurare la ripresa di una nota dantesca). L’autore contemporaneo che ho percepito come un maestro, da una distanza naturalmente e da una differenza, è Mario Luzi, che ho avuto il tempo di frequentare nella sua estrema maturità. La lezione che ne ho ricevuto in dono è stata non tanto ideologica o tecnica in senso stretto, ma direi di sguardo: in lui ho avvertito il sentimento magnanimo della lingua, la possibilità e la scommessa di affrontare un orizzonte più vasto di quello dell’affanno individuale. Ancora un senso di creaturalità, che a lui proveniva dalla lezione di Betocchi. Ho del resto letto e amato tanti poeti del Novecento: citerei almeno in un elenco solo esemplificativo e incompleto Saba, Campana, Rebora, Cardarelli, Sbarbaro, Ungaretti, Betocchi, Pavese, Bertolucci, Antonia Pozzi, Caproni, Sereni, Bigongiari, Fortini, Turoldo, Zanzotto, Pasolini, Erba, Giudici, Spaziani, Pagliarani, Rosselli, Sanguineti, Merini, Raboni, Porta, alcuni dialettali come Pierro, Guerra, Baldini, Scataglini, Loi. Più aperto e diretto è stato il confronto con autori nati a partire dagli anni Quaranta del Novecento, che ho potuto conoscere più da vicino. Il catalogo naturalmente sarebbe molto più lungo, comprendendo anche autori stranieri e testi narrativi: penso per quest’ultimo versante ai russi, a Kafka, a Verga, a Pavese… Al fondo della mia tradizione linguistica ho poi avvertito come fondanti e decisivi il magistero drammatico-profetico di Dante e quello lirico-ossessivo (ma anche penitenziale) di Petrarca.
- Di cosa si è occupato e su cosa sta lavorando attualmente in campo filologico e nella sua produzione in versi?
In campo filologico mi occupo di testi trecenteschi, spesso minori, ma anche di studi danteschi, petrarcheschi e boccacciani, sia pure da punti di vista specifici e parziali, senza trascurare qualche prova di filologia d’autore riguardante autori moderni. Come critico ho in mente un nuovo libro saggistico, che parta da Dante e arrivi alla tradizione dei moderni e contemporanei e sia incentrato sulla “gloria de la lingua” nel suo trasmutare di valore e di segno dai classici a noi. Da autore di versi, vorrei varare una antologia dei miei quattro libri, con una sezione di inediti, ma ho anche in preparazione una nuova opera, Regni, che spero di poter pubblicare tra non troppo tempo. Questo libro, che riunisce testi datati all’incirca 2009-2015, è più o meno concluso, salvo revisioni e ritorni. Poi ci sono le nuove poesie, che a poco a poco stanno formando un ulteriore disegno, ancora non definito.
- Il suo essere credente e praticante come si riflette nella sua scrittura?
Si può dire che nella scrittura si determini un cozzo, uno scontro tra la massa della conoscenza del mondo sotto specie materiale, naturale e la promessa cristiana, il suo lievito e il suo seme, che non annulla il dramma, ma lo spinge fino all’estremo del suo possibile esito ultimo. In Cristo non c’è l’assunzione di tutto il dolore, di tutto l’enorme male su cui la natura è fondata? Si può cogliere una tensione tra la fine e fragilità di ogni cosa e la sua imperscrutabile destinazione non mortale. Quando Isaia fa le sue profezie escatologiche, quando San Paolo parla del mondo che geme nelle doglie del parto, quando Giovanni afferma che non sappiamo ciò che saremo, ma che un giorno vedremo Dio come egli è, sento che la poesia può avere tra i suoi possibili orizzonti questa tensione enigmatica, inquieta, protesa verso un inveramento di cui la nostra lingua potrebbe forse contenere qualche brandello o traccia misteriosa, naturalmente a partire dal particolare, dal piccolo, dalla nostra finita esperienza, dalla ricerca e memoria dei volti amati. Siamo immersi nel mistero, usiamo la lingua entro la caligine di una visione oscura, difettiva, povera, dolorante. La poesia può forse divenire in questa luce non protervamente asseverativa, in un senso o in un altro, ma interrogativa, capace anche di implorazione, aperta all’enigma dello sguardo che la comprende.
- Nella sua attività di critico letterario e di osservatore attento dell’editoria italiana, pensa che la poesia possa sperare in un incremento qualitativo e quantitativo di fruitori?
Si sarebbe portati a dire di no. E a suggerire che l’esilio della poesia sia la condizione per darsi qui e oggi. Che questa situazione la costringa al massimo di energia e di decisione: nella povertà. Ma chi può saperlo, domani e dopo…
- Come docente universitario, in quali difficoltà si imbatte nell’avvicinare le generazioni più giovani allo studio e all’amore per la letteratura?
Tutto congiura contro, ma il miracolo dell’incontro accade.
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12 aprile 2016