GIOVANNA FRENE, IL NOTO, IL NUOVO – TRANSEUROPA, MASSA 2011
«Mi piace pensare a questo testo come a un’opera di poesia della storia», scrive Giovanna Frene a commento di questo suo denso, severo, impegnato contributo poetico. Poesia della storia e non sulla storia, quasi a mettere tra parentesi il suo ruolo di voce sola e celebrante, in favore di una testimonianza più collettiva di sdegno e denuncia. Un libro particolare, il suo, di un’originalità esibita e orgogliosa, non solo formale e contenutistica. Nella proposta editoriale, in primo luogo, della coraggiosa casa editrice Transeuropa, che affianca ai testi proposti nella collana Inaudita anche un allegato multimediale (in questo caso, un cd del gruppo POEMS). Nella veste grafica, che intervalla i versi con fotografie newyorkesi di Laura Callegaro, e accompagna ogni poesia con la traduzione in inglese. Nella prefazione di Paolo Zublena e nella postfazione di Silvia De March, entrambe dottissime ed esploranti tutti i collegamenti filosofici, psicologici e letterari interni al testo. Soprattutto poi nei rimandi culturali sottesi, stratificati in ogni pagina della plaquette, che richiamano i nomi basilari del pensiero novecentesco (Braudel, Deleuze, Arendt, Benjamin, fino al nostro Severino) e che rendono ogni parola poetica radicata nel terreno scabro, risentito e recettivo della coscienza civile e ideologica del secolo appena trascorso. Una poesia, questa di Giovanna Frene, assertiva, dura, compatta: concentrata sul tema del male, come si prospetta non solo metafisicamente, ma nel suo concreto operare storico. Il male come “skàndalon” intollerabile, e pure troppo spesso accettato pavidamente, non contrastato nell’operare quotidiano dei popoli e dei singoli. Un male che nei millenni si è fatto guerra, strage, terrorismo, pulizia etnica: quasi sempre senza capacità di redenzione e riscatto, senza prospettive di speranza e riparazione: «ma è mai esistito un tempo buono, inenarrabilmente / buono, aperto a conchiglia verso ogni futuribile possibilità che esista anche / solo un frammento diverso / attorno a cui germinare?».
Male che si è concretizzato nella storia «dal Giordano alla Vistola», dai lager nazisti a Ground Zero, lontano da ogni giustizia e giustificazione, che pesa con la sua crudele gratuità anche solo nella possibilità di nominarlo; il male provocato, ad esempio, dalle armate di Giovanni dalle Bande Nere, che poi si ritorce contro lui stesso, uccidendolo di cancrena a ventotto anni. Gli eccidi degli eserciti di ogni tempo sono «una piccola macelleria simulata / sopra un prato ridente e fuggitivo»: e l’ironia spiazzante dell’utilizzo di echi leopardiani diventa scherno, orrore esacerbato. Allora l’innocenza della natura, «il fruscio d’ali, va all’incontro con il marchio di esistere, / si interseca al vertiginoso concrescere botanico e sociale / per le chiare ragioni che non guarda negli occhi lo sguardo». Non sembra esserci salvezza, sollievo dal dolore, in questi versi che si rincorrono ansimanti, spezzati, lunghissimi e perentori. A volte chiusi in parentesi, in virgolette, in rettangoli che ne sottolineino la violenta icasticità. L’evento narrato non è mai grazia, illuminazione, riabilitazione: «l’occidente comune della morte non muta, tagliato / il fiume, il gesto bruciato, da flutti apparenti presto spento il fuori-posterità». Non c’è un dopo, in queste poesie di Giovanna Frene: tutto viene azzerato in una combustione immediata di senso e di immagini: «non è l’eccezione che si pensa, la schiuma che ingoia il mare. / non si scava la fossa, questo tornare irrevocabile, / inimmaginabile, calpestato, trito dai sassi…». E ancora, in un impotente grido di ribellione contro il moloch che ci assedia e deturpa tutti, e macina ogni storia: «forza, o carne di potere, o tutto-potere, o vita che deriva dalla vita; / da ciò deriva la simulazione, la nostra vera imposta fine».
«Leggendaria» n. 102, novembre 2013