CLAUDIO RECALCATI, MICROFIABE – MONDADORI, MILANO 2010
Questo volume di versi, scandito in sette capitoli, si apre mantenendo fede alle indicazioni critiche introduttive, che parlano di «energia violenta», «inquieta tensione drammatica», «narrazione franta, in bilico fra realtà e incubo». E in effetti, la prima parte del libro offre al lettore un’immagine forte del male, della corruzione fisica e della sofferenza, con la sezione iniziale dedicata a una drammatica visita a un ospedale, dove è ricoverato il padre del poeta: corpi martoriati, carne ridotta alla macerazione, tra cannule tubicini pitali, deambulare di pazienti, respiri catarrosi, «ciurma di arti indipendenti». Anche la quotidianità familiare sembra sopravvivere in una scenografia desolata, in cucine disfatte: «un sudario di sughi è il tavolo», «l’osso scarnificato nel piatto», «bottiglie vuote di gin e aromi d’aglio», che arriva a coinvolgere la vita tutta: «le ossa, questa carne lessata / al pallido sole estivo», in cui i protagonisti si riducono a un «cumulo di cenci / avvolti come sudari irrispettosi». L’amore si fa vivo a sprazzi, e mai consolatorio, quasi consapevole del disfacimento a cui tutta la realtà è destinata: «Qui non è regno è l’idiozia / del poco degli affetti»; e l’autore è consapevole della sua responsabilità nella visione negativa dell’esistere: «i sussurri d’eco / là dove ho smarrito la luce…», «Anni e anni ho vissuto / con questo senso ostile alla vita». Ancora la parte centrale del volume (Il seme ferito, dedicata a Dino Campana) assume questa visionarietà allucinata e aggressiva, con la «figura scarna» di Sibilla Aleramo, «incandescente e impura», che risponde all’amore malato del poeta toscano: «Milioni di volte ho atteso / che tu vuotassi la mia sacca gonfia, / placassi il mio tremore cervicale»; e ancora «Sapessi che voglia di ucciderti avrei». Tuttavia, nelle due sezioni successive (Tre quadri e Tre ladri) la tensione febbrile dei versi sembra diluirsi in una classicità più blanda, meno incisiva, meno rabbiosa; quasi che il male non venisse più riconosciuto come invincibile, assoluto dominatore dei destini umani. E invece risorge imperioso nell’ultimo capitolo del volume, L’ortolano di Balzac, ritratto impietoso e impressionante della malevola figura di un negoziante di frutta e verdura, lercio nel corpo e nell’anima («Zoppo o storpio chiamalo / macilento», «la palpebra di un occhio pendula», «narrano che abbia commesso / un efferato crimine»), padre padrone di una famiglia tarata, infetta dalla volgarità e dalla bruttura, che con la sua bassezza inquina l’atmosfera di un intero rione. Non sempre la poesia consola, l’aveva già insegnato Baudelaire: ma a volte sa sollevarsi anche nella descrizione della negatività.
«L’immaginazione» n. 261, marzo 2011