PAUL CELAN, LA SABBIA DELLE URNE – EINAUDI, TORINO 2016

L’editore Suhrkamp riuscì a pubblicare solamente nel 2003 la raccolta Der Sand aus der Urnen con cui Paul Celan, nato nel 1920 a Czernowitz in Bucovina (allora territorio annesso alla Romania), aveva esordito come poeta in lingua tedesca. Il volume, ora proposto per la prima volta in Italia da Einaudi con una superba traduzione di Dario Borso, ebbe vita travagliata. Raccoglie versi scritti tra il 1941 e il 1948 lungo le «vie traverse» che Celan si trovò a percorrere nella sua difficile esistenza: dalla città natale ai due lager in cui fu rinchiuso (Tăbărăşti e Fälticeni), poi a Bucarest, a Vienna e infine a Parigi, dove si era trasferito nel 1947, e dove si suicidò nel 1970. Oggi ci viene presentato suddiviso in tre sezioni – Alle porte, Papavero e memoria, Fuga di morte -, e con una ricca appendice di testi espunti dalla prima edizione del 1948. Ma inizialmente, e nelle intenzioni dell’autore, consisteva di 48 poesie pubblicate in 500 copie numerate dall’editore viennese Sexl, mai distribuite perché contenenti troppi refusi. La raccolta fu in seguito rimaneggiata, cambiò titolo, e rifluì in diversi lavori successivi.

Lo stile di questi versi giovanili è meno frammentato e spigoloso di quello più tardo e tipicamente celaniano, riflette atmosfere non così ossessive e angoscianti, e risente nella sonorità di qualche eco rilkiana. Soprattutto nella prima parte ci troviamo di fronte a diciassette composizioni bucovine, scritte tra il 1941 e il 1943, che esprimono nel loro tono sospeso, quasi favolistico, il miraggio di un oltre da raggiungere, superando il dato fisico e concreto di qualsiasi violenza imposta dalla storia o dalla natura. Silenzio, fragilità, sogno, lontananza, ombra, vaghezza sembrano volersi opporre alla compattezza impenetrabile del reale. I corpi sono descritti attraverso particolari secondari (sopracciglia, guance, spalle; da memorizzare un verso splendido: «a me la spalla rimase sola, perché portò». Il peso che isola, il dolore che opprime…). L’ambiente è prevalentemente boschivo, con alberi che si animano interagendo con la fantasia del poeta, definiti con precisione botanica mista a stupore religioso. Il clima è umido, piovoso o nevoso sempre, ma avvolgente, materno: «Ti manca il cielo col migrare degli uccelli? / Fa’ che la pietra sia la nube, io la gru».

La seconda sezione, più surreale ed estraniante già dal titolo, Papavero e memoria, è la più corposa, e comprende versi scritti tra il 1944 e il 1948 in Romania, a Vienna e a Parigi. I colori si fanno più cupi, il freddo più intenso, prevalgono le notti e le nubi oscurano il cielo in molte poesie (Wolken, Regenwolken, Gewölk, Wolkenwagen). Nel buio lampeggiano lame, coltelli, pugnali, spade; gli occhi dei viventi sono sbarrati, minacciosi o testimoni impauriti in un crescendo di ansioso smarrimento: «Sottratti all’estate sono i cuori: / la frutta, che ti si maturò al crepuscolo, issata / alle torri dentate / dell’aria. Sopra merli di cenere. / Nel grembo lupesco del dio». Qui la scrittura preannuncia la cifra stilistica più tipica di Celan, la sua visionarietà angosciosa, l’annaspo balbettante della parola. Il testo finale, Todesfuge, con il lapidario ossimoro iniziale (Schwarze milch), costituisce forse la più famosa poesia di Celan, implacabile e inorridita denuncia dell’orrore dei lager.

La selezione scrupolosa delle poesie presenti nell’Appendice e le curatissime note che riportano data di composizione e varianti di ogni testo, documentano l’attenzione con cui il volume è stato allestito. Infine, la traduzione di Dario Borso sa rendere egregiamente il ritmo franto dei versi e la loro densità lessicale, anche nell’intensa singolarità dei neologismi e dei vocaboli desueti proposti (imbluisce, avviticchi, abbuia, verdefoglia, imbrunenti, falbi, chiarostellare, colchico, ingialla, eufrasia, almanacca, aquilegie, mezereo, ambrette, gittagi…).

«Poesia» n. 317, luglio 2016