ALBERTO NESSI, TUTTI DISCENDONO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989
Alberto Nessi è poeta e scrittore ticinese tra i più noti per le frequenti collaborazioni a giornali trans- e cisalpini (dal Tages Anzeiger, al Quotidiano, a Cooperazione) e per il suo lavoro assiduo, attento, di sensibile cronista di un’età e di una regione in stridente conflitto tra loro e in se stesse. Zona di confine quella che fa da sfondo all’esistenza di Nessi (insegnante alle scuole medie in congedo) e nutre la sua scrittura: zona circoscritta – Chiasso, Mendrisio, Coldrerio – ma nello stesso tempo proiettata al di là di concreti e invisibili dogane dell’anima, scissa tra immobilismi e frenetiche rincorse al futuro. Luogo dove non è facile vivere, dove e di cui deve essere difficile scrivere. Alberto Nessi ne scrive con amore, con la dedizione che si offre a una causa che si teme persa ma si vuole fortemente salvare; ne ha scritto anche nell’ultimo volume pubblicato da Casagrande, Tutti discendono. Sono dieci storie corali, narrate dall’autore per gente che non scrive e che non legge, per i più che vivono “in discesa”, senza accorgersene e senza lasciare traccia di sé, se non nella memoria locale di chi li ha conosciuti. Sono storie scritte forse anche per esorcizzare la morte, «il moscone nero che un giorno discende sui nostri volti». Nessi è nato nel ’40, all’inizio della guerra: «Venni al mondo a fatica: sfido io, con quel testone! Appena mi vide mia madre si spaventò: – Oh Madonna, c’è qua il Lisandro! – Il Lisandro era un macrocefalo che abitava vicino a casa nostra e diceva sempre “universo pecora” e passava ogni giorno con il secchiello del latte appeso al mignolo. Mia madre pensava che i nati in tempo di guerra fossero difettati».
Di questa atmosfera bellica è impregnato il primo racconto, Vampate, che si apre con un bombardamento avvenuto per sbaglio su Chiasso e Balerna, mentre i cittadini si sbracciano per far capire ai piloti dei caccia che «alt, qui comincia la Svizzera». La storia non si ferma ai confini, e anche il Ticino più limitrofo all’Italia è coinvolto nella diaspora del fascismo, e poi nelle vendette dopo la liberazione… «Qui da noi arriva solo l’eco della storia, qualche bossolo disperso, e per vedere qualcosa bisogna aguzzare la vista». A Chiasso la storia non si fa, la si subisce: la subisce la gente semplice che non sa darsi una ragione di tanti incomprensibili sconvolgimenti. Il padre, il nonno, lo zio anarchico dell’autore sono figure a tutto tondo, caratteri forti, meno banali delle figurine patetiche e conformiste in cui ci siamo trasformati tutti, oggi. Anche i matti del paese hanno una loro individualità, i balordi fanno parte del paesaggio, sono membri del coro, trattati con bonomia e non rinchiusi in funzionalissimi e tristissimi istituti («Il Cecchino raccoglieva le belle cacche rotonde dei cavalli per le strade…Il Tano ha una malattia: quando vede le donne in costume da bagno si mette a urlare…»). A rifletterci, c’è un evidente restringimento dell’orizzonte sociale cui corrisponde una fittizia dilatazione dell’individualità man mano che si passa dagli anni della guerra ad oggi: alla coralità di allora si oppone l’isolamento attuale, al pubblico il privato, alla solidarietà l’egoismo, alla storia la psicanalisi. E questo percorso è ben rappresentato dal susseguirsi dei racconti, che si focalizzano sempre più sulla figura dell’individuo-autore. Le tragedie di una cittadina sono sostituite dai turbamenti di un adolescente e dei suoi pochi amici; lo sfasamento materiale, concreto della vita tra due dogane («donne spiavano i burlandi e si nascondevano dadi nel reggipetto per passare la dogana»; «mio padre…la sera nascondeva venti pacchetti di sigarette nelle calze agiose che arrivavano al ginocchio e passava la dogana col Virginia tra le labbra») diventa malessere individuale, conflitto morale («Essere ombre lungo piste prestabilite o cercare un punto di fuga verso territori inesplorati? Essere guardia o contrabbandiere?»). Il ragazzo si trasforma in un uomo in crisi, non più in sintonia con il mondo che lo circonda: «Così imparai anch’io a vivere un po’ in disparte, come un insetto che attraversi un vecchio mobile nelle crepe del legno e arresti il suo zampettare, in ascolto, al primo colpo sull’impiantito». E ancora: «Sono tornato con il treno delle dieci. Alla stazione dove tutti discendono mi sono fermato un momento sotto l’affresco dell’emigrante. Stare nascosto, mi sono detto. Spiare la vita degli altri. Cercare le tracce del Ragazzo nella Piccola Città. Vivere negli interstizi. Dire di no. Squarciare il nebbione dietro il quale si nascondono i morti».
A Chiasso scendono tutti, il viaggio è finito (l’immagine è ripresa da una bella poesia di Nessi: Le donne). Ci si lascia alle spalle un paese, un percorso di vita, un tempo diverso: le osterie dove il nonno giocava alla morra e quando buttava il tre gridava: -Trema Dio!- . Quale Dio trema più nei nostri bar, tra flipper e video games?
«Agorà» (Svizzera), 21 febbraio 1990