JOHN KEATS, LETTERE SULLA POESIA – FELTRINELLI, MILANO 2016
“Le lettere di questo epistolario sono semplicemente la registrazione dal tono modesto, familiare, colloquiale – spesso, nella fretta dell’abbandono, perfino sgrammaticato – del dialogo che il poeta intrattiene con i propri amici, i fratelli, la sorella e la donna amata. Sono semplicemente le lettere di un poeta che, tutti sanno, morì giovane e visse appena il tempo di scrivere cinque tra le più grandi odi che la nostra tradizione poetica conosca. Coprono lo spazio di cinque anni, e la poesia ne è il tema esclusivo: accanto all’altro ‘pensiero dominante’, il pensiero della propria morte”.
Così la celebre anglista Nadia Fusini nell’introduzione al volume Lettere sulla poesia di John Keats.
Keats (Londra, 1795 – Roma, 1821), unanimemente considerato uno dei più significativi letterati del Romanticismo, nato in una famiglia d’estrazione modesta, scoprì adolescente la propria vocazione letteraria leggendo Shakespeare e Spencer e dedicò tutta la sua breve vita allo studio della poesia e dell’arte, affascinato dalla cultura greca e dal mito della bellezza.
Nelle lettere qui raccolte, indirizzate agli amici, ai parenti e alla fidanzata tra il 1817 e il 1820, si soffermava soprattutto sui temi che più gli stavano a cuore: in primo luogo, quindi, su cosa si dovesse intendere per “poesia”. Per lui, scrittura e vita si identificavano completamente; alla propria opera il poeta aveva il dovere e il compito di dedicare ogni attimo e pensiero dell’ esistenza: “Ho pensato tanto alla Poesia e tanto a lungo di seguito che non riuscivo più a dormire la notte…”, “Sento che non posso vivere senza la poesia”, al punto di rinunciare alla sua realizzazione come uomo, sacrificando qualsiasi soddisfazione materiale, scegliendo la solitudine, il fallimento professionale, l’incomprensione sociale, la povertà. Alle cose reali, il poeta deve anteporre la devozione verso l’immaginario, al corporeo l’incorporeo: solo così la poesia potrà nascere sorgiva, spontanea, naturale: “Se la poesia non viene così naturale come le foglie all’albero è meglio che non venga affatto”.
E il poeta, interprete sommo dell’arte, deve riuscire a dimenticarsi, perdendo consapevolmente la propria identità, deponendo il suo “self”, per farsi portavoce di un Assoluto che lo trascenda, per fondersi con la Bellezza intesa come Verità. Ecco che allora approda a un’estasi, a una visione che lo svuota di sé, lo sorprende e rapisce in un’attesa indefinita, rivelatrice di gioia pura, gratuita, illuminante. Il poeta, creatura del passaggio tra l’essere e il nulla, deve tendere all’oltre, sospeso alle sensazioni e alle immagini, alla fantasia e all’invenzione, nel disinteresse per ciò che è attuale e concreto, decidendo di sparire a se stesso e al mondo: “La mia Immaginazione è un monastero, e io ne sono il Monaco”.
Sacerdote di un esperire visionario, di una verità archetipica nell’ombra, il giovane John Keats si immolò sull’altare della poesia (“Ammiro la Natura umana ma non mi piacciono gli Uomini. Mi piacerebbe scrivere in onore dell’Uomo, ma vorrei che gli Uomini non toccassero ciò che scrivo”), presagendo la sua morte precoce (“Ho l’idea costante che la vita sia ormai finita per me, e vivo un’esistenza postuma”). Struggente ci appare l’ultima frase dell’ultima lettera – diretta all’amico Brown -, consapevole che il suo addio sarebbe stato definitivo, e temendo tuttavia la retorica dell’abbandono: “Sono stato sempre impacciato nel prendere congedo”. Sicuro, comunque, della grandezza della sua arte, a cui aveva dedicato fino all’estenuazione i suoi ventisei anni: arte che l’avrebbe reso unico e immortale.
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www.sololibri.net/Lettere-sulla-poesia-John-Keats.html 21 settembre 2016