- Cosa ci puoi raccontare dell’ambiente in cui sei nato, ti sei formato culturalmente, e in cui oggi vivi e lavori?
Ho avuto la fortuna di avere due genitori che, fra le altre cose, mi hanno sempre incoraggiato a leggere. Culturalmente mi sono formato in una Firenze perennemente post-ermetica al cui clima un po’ opprimente ho reagito per opposizione. Oggi la scena letteraria fiorentina è animata soprattutto da narratori; i poeti, seppur affiatati, sono un po’ più defilati.
- Attraverso quali letture e incontri ti sei avvicinato alla poesia?
Ho iniziato a leggere poesie da adolescente: dai maledetti francesi passai ai beat americani e ai futuristi russi, tipiche letture un po’ ribelli. Frequentavo altri giovani poeti, organizzavamo serate di letture a microfono aperto che in poco tempo divennero molto popolari. Era un’epoca pre-internet e per noi l’incontro era fondamentale: ci scambiavamo libri ed esperienze. Un incontro decisivo per me fu quello con Mariella Bettarini e i libri della sua casa editrice Gazebo: fu lei ad introdurmi alle tecniche di revisione di un testo poetico, mi insegnò il cosiddetto labor limae. Tramite Mariella entrai in contatto con poeti fiorentini di poco più grandi di me: Massimiliano Chiamenti, Elisa Biagini, Rosaria Lo Russo.
- In che relazione si trovano la tua produzione poetica, quella di performer teatrale e l’attività di traduttore?
Si tratta di un rapporto di interdipendenza: la traduzione e l’interpretazione vocale di testi altrui è nutrimento fondamentale per la mia scrittura. A tutt’oggi, l’unico sistema che ho per valutare se un mio testo è riuscito o meno, è quello di leggerlo ad alta voce.
- Quale dei tuoi libri ha avuto più successo, a quale sei più legato emotivamente, e a cosa stai lavorando adesso?
Direi “Sesto Sebastian”, un monologo drammatico del 2004 sul martirio di San Sebastiano che costituì per me un coming out in versi. È stato ristampato di recente in “Poesie d’amore splatter”, un’antologia dei miei testi più “performativi”. In questo periodo sto lavorando ad una nuova raccolta intitolata – per ora – “Le buone maniere” e si ispira ad una tradizione letteraria che da Bonvesin de la Riva e Giovanni Della Casa arriva fino a Donna Letizia: è una riflessione sulle regole del vivere civile aggiornate alla violenza dei nostri tempi.
- Leggendoti, sembra che sulla tua scrittura agiscano influssi non solo letterari, ma anche – e forse soprattutto – cinematografici e musicali. È un’impressione esatta?
Sì, lo è: in realtà ciò che mi ha sempre affascinato è la contaminazione fra forme espressive di differente provenienza. Sono dell’opinione che un testo poetico possa e debba essere in grado di esprimere il tempo in cui vede la luce. Io sono nato nel 1979, la mia è stata un’infanzia prettamente televisiva. Nel 2007 realizzai un libro, “Palinsesti”, interamente costruito sfruttando la carica mitologica (e quindi anche comunicativa) dell’immaginario televisivo degli anni ’80. La mia intenzione era quella di creare un canzoniere che fosse anche un peana generazionale per la fine dell’infanzia. L’operazione puntava al riciclaggio di un immaginario sporco, innescava nel lettore coetaneo una sorta di riconoscimento immediato seppure surreale. Dal 2010 in poi la mia scrittura tenta di avvicinarsi all’altro in maniera più decisa e per raggiungere questo risultato mi avvalgo anche di tecniche narrative. La metrica poi, che per sua stessa natura interferisce coi processi mnemonici, cerca di mimare, nel suo costituirsi in strofe, vere e proprie inquadrature la cui dinamica viene impressa tramite il ritmo del verso.
- Dai tuoi versi traspare un’adesione vivace, quasi fisica, alla vita in ogni sua manifestazione. Una partecipazione gioiosa e ironica a tutto quello che ti accade intorno. Vivere, amare, osservare, rincorrere la felicità, è più importante che scrivere. Giusto?
Direi che senza una naturale curiosità per le realtà che ci circondano e che incrociamo quotidianamente, difficilmente si arriva a scrivere qualcosa di valido. In qualsiasi corso di scrittura creativa, una delle prime lezioni che si apprendono è «Scrivi di ciò che conosci». Noi iniziamo a conoscere le cose nel momento in cui stabiliamo un contatto, nel momento in cui iniziamo a confrontarci con esse. Da questi contatti può accendersi la scrittura che a volte segnala solo l’inizio di un percorso di indagine: ciò che la scrittura scopre in genere è una vasta complessità in cui è facile (ma in fondo anche utile) perdersi.
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www.sololibri.net/Intervista-a-Marco–Simonelli.html 11 novembre 2016