ANTONIO TUROLO, A PARTE IL LATO UMANO – VALIGIE ROSSE, PISA 2016
Quando, nel 2010, i fondatori della piccola casa editrice toscana Valigie Rosse istituirono il Premio Ciampi – dedicato allo chansonnier loro concittadino – intendevano segnalare autori letterari che fossero «diretti, amari e poco rileccati», e che aspirassero «a una bellezza formale originata da una personale schiettezza senza sconti». In quest’ottica, il Premio Ciampi 2016 è stato attribuito a un piccolo volume di versi e prose, A parte il lato umano, di Antonio Turolo, poeta veneto nato nel 1962. La plaquette, illustrata con le opere di Riccardo Bargellini che radunano «in un impasto ironico e agghiacciante, decontestualizzate insegne di aggressività, pericolo e sbilanciamento», si definisce (secondo l’approfondita postfazione di Paolo Maccari) attraverso una sua «asciuttezza e nudità» tendente «all’indagine di sé dentro un individuato contesto sociologico oltre che psicologico». I personaggi descritti dai versi di Turolo (di una disarmata semplicità, secchi e immediati) sono proletari o piccolo-borghesi, sempre disillusi, vinti e disperati: colti in un frangente particolare della loro esistenza, che spesso coincide con l’attimo fatale della morte, oppure con il momento rivelatore che li inchioda alla loro sconfitta.
Così leggiamo di infermiere di un pronto soccorso indifferenti all’agonia dei pazienti («Chi xe morto, chi xe morto? // Alle sei del mattino, primo turno / le garrule infermiere si informavano / con allegria»). Del prete che si imbosca nel cinema porno di una città lontana e, colto da infarto, viene riconosciuto come religioso per il colletto del clergyman dimenticato sotto il cappotto. Dell’anziana pensionata che si rifiuta ai parenti e al mondo, nel suo Evitamento, ma il cui cadavere in decomposizione è ritrovato dai vicini insospettiti per l’accumularsi della sua posta: più che altro bollette non pagate e reclami («chi le scriveva più?»). Del pugile sudamericano gay che uccide il suo avversario sul ring perché offeso da un insulto omofobo di lui. Dell’ex carabiniere caduto in disgrazia sociale ed economica, animato da odio razziale e di classe, che quando tenta un gesto eclatante contro le autorità sbaglia mira e obiettivo, fallendo anche nella sua ultima impresa. E poi dell’indifferenza della gente – che siamo noi tutti -, dell’omertà, dell’egoismo che permette alla collettività di sopravvivere anche a se stessa.
I versi di Antonio Turolo, così piani e di facile presa sul lettore, tendenti a mimare la secca prosa giornalistica, sono intercalati da brani di contro-commento esplicativi, pezzi diaristici in cui i protagonisti delle poesie offrono una loro verità alternativa, con inserti di dialogo, talvolta multilingue, o monologhi al limite della fantasticheria psicotica. Turolo, in un suo autoritratto a stampa, si definiva «un crepuscolare nostrano, un Corazzini poniamo, con qualche velleità pasoliniana». Maccari allude a influenze di Sbarbaro, Nelo Risi e Giovanni Giudici. A me pare evidente, invece, una qualche eredità con i personaggi perdenti e rassegnati al margine di Elio Pagliarani, anche nel tono risentito e pietoso con cui il poeta li avvicina, comprendendoli e giustificandoli, in un j’accuse sociale più amaro che indignato: e nell’abilità quasi cinematografica dei primi-piani di notevole intensità descrittiva.
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15 gennaio 2017