Lo chiamavano Pedro – ma non era spagnolo –
per il baffo spiovente, la voce suadente, l’aspetto
gitano e marino, un destino di sole e di acqua
nel sangue, imbastito di scarne parole.
Da vent’anni viveva nel faro, che era sua moglie
e sua mamma perché ci passava le estati e i natali;
da solo. Ogni mese arrivava la barca a motore
a portargli coperte vestiti vivande: lui scendeva
le scale a spirale, caricava sei sacchi di roba
sulle spalle – farina per il pane, il vino, saponi.
E poi rimaneva in silenzio a mangiare,
assorto a pensare. Sull’isola gli scogli, sentieri
dirupati, brughiera di mirto e rosmarino.
Usciva di mattino, fischiava a un pescatore,
a un contadino che lavorava l’orto,
ma senza dire niente. Inutile parlare,
faticoso: non c’era abituato.
Piuttosto cantava, canzoni d’amore
che aveva imparato in gioventù.
Adesso che è maturo, quasi vecchio,
Pedro guardiano fa compagnia a se stesso
e non gli serve altro, non ha più voglie
rimpianti speranze. Le poche stanze
del faro sono reggia e monastero:
la minima cucina e il forno a legna,
la camera da letto, il cesso e un salottino.
Di giorno tutto bianco di luce,
di notte le stelle splendenti che quasi le tocchi.
Antares, Cassiopea come un diadema,
sapersi nulla scrutando l’orizzonte,
strizzando gli occhi a rincorrere i lampi
che dalla lanterna sorvolano il mare,
indagano il cielo. Ma c’è da fare,
sempre. Spazzare i pavimenti,
controllare le lenti e la pompa
dell’acqua, comunicare i dati
alla centrale, riempire i secchi
nella cisterna fuori, per lavarsi
e per bere. Eppure, sono cielo
e mare, la linea di confine che li segna
a occupargli la mente, i sogni
quando dorme: a fissare dall’alto
quella riga sottile gli viene da pensare
che la terra sia piatta, e non rotonda:
lunga, distesa, un deserto infinito
e paziente. Azzurro, blu cobalto,
giallo al tramonto, rosato all’alba,
di notte nero in quello spazio aperto
solcato a volte da una fila di navi,
più spesso vuoto e muto. Pedro
si perde, cerca l’aiuto di capodogli
e delfini, oppure un roteare di falchi,
gli stridi dei gabbiani per non sentirsi
abbandonato e solo,
che se morisse nessuno lo saprebbe.
Gli piace udire almeno la risacca,
uno sciacquio remoto prima di addormentarsi;
o quando legge il farfallio di mosche,
di falene, le rondini che sbattono
sui vetri, e il vento, il vento forte;
la burrasca, una buriana di scirocco
o grecale, qualsiasi cosa che lo faccia
star bene o male, ma vivo e vero. Da sveglio
col binocolo sugli occhi
non sa cosa si aspetta di scorgere lontano,
nel sulfureo bagliore di flutti giganteschi:
le ossa spolpate di un antico fenicio,
larvale spettro implorante vendetta
che un tempo era bello, era alto
e amava nella stiva ragazzi moreschi;
finì negli abissi del buio avvinghiato
a una trave (ah, temi, marinaio del mondo,
la morte per acqua!). O spera, il guardiano del faro,
di essere il primo a vedere in un’alba nebbiosa,
confuso col vento, lo sbuffo di vapore
alzarsi dal dorso della bianca balena
trafitta di fiocine, indomita, furiosa,
vittoriosa. E dietro di lei un vascello fantasma
che sfiora le onde, si alza, sprofonda,
poi vola su ali poderose tra le nuvole,
scompare come un sogno, è una fiaba
narrata davanti al camino da un vecchio
che accarezza a parole lui bambino.
Lui bambino non ancora Pedrito
pesava i suoi giorni sulla riva
ciottolosa, a lanciare sassetti
rimbalzanti sull’acqua, poi nudo
si tuffava a bracciate innervosite
dove non si toccava: e il faro
era lontano, a guardarlo, futuro
del futuro, promessa
di silenzio e di avventura, di freddo
e di paura; il faro del destino
di Pedrito bambino.
Che cresciuto e forte come un toro,
con le braccia abbronzate e il primo pelo
sulle guance sul petto tornito
ci portava le signore più grandi
straniere, imparava l’amore, le stringeva
sdraiato tra le chiglie delle barche
a riposo, e la luce del faro
sciabolava i capelli normanni vaporosi,
lo invitava ad osare ogni notte di più.
Così pensa i suoi ricordi compagnia
mentre è solo appoggiato con la testa
alla parete brufolosa inumidita
della stanza in cui conta le ore
di fronte alla finestra salmastra,
fumando sigarette stropicciate
tra le dita, e dalla radiolina
ascolta la voce distante
che racconta una partita indifferente.
In Lo Straniero n.180, giugno 2015 e in L’attesa, Marco Saya edizioni, Milano 2018