ANNIE ERNAUX, IL POSTO – L’ORMA, ROMA 2014
Di Annie Ernaux, nata nel 1940 e considerata un classico nella narrativa contemporanea d’oltralpe, la casa editrice romana L’Orma propone nella traduzione di Lorenzo Flabbi questo romanzo pubblicato in Francia nel 1983. Si tratta di una rivisitazione autobiografica della famiglia dell’autrice, e in particolare della figura paterna, tracciata in uno stile composto e oggettivo, privo di qualsiasi compiacimento o ridondanza: un omaggio al padre vissuto e morto occupando con dignità il suo piccolo posto nel mondo. Annie Ernaux per questa sua celebrazione domestica ha scelto con consapevolezza una «scrittura piatta», e ce ne fornisce una giustificazione etica prima che letteraria: «Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di ‘appassionante’ o ‘commovente’. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io».
Ma dall’esistenza modesta del padre – nato contadino, poi diventato operaio e infine gestore di un bar-drogheria in una cittadina della Normandia – la figlia prende presto le distanze, scegliendo un percorso più borghese e intellettuale, laureandosi e insegnando, in qualche modo vergognandosi sempre delle origini e degli atteggiamenti dei genitori (gesti impacciati, linguaggio dialettale, vestiti dozzinali: «Assomigliavano a tutti coloro che non sono abituati a uscire»). Fuori posto loro nella sua vita, lei nella loro: «Sono scivolata in quella metà di mondo per la quale l’altra metà è soltanto un arredo». Felice e forse orgogliosa di essere fuggita dal posto che le era stato predestinato, sentendosi tuttavia in colpa per aver in qualche modo tradito. L’unico riscatto possibile rimane allora quello della testimonianza scritta: «Non per indicare al lettore un doppio senso e offrirgli così il piacere di una complicità, che respingo invece in tutte le forme che può prendere, nostalgia, patetismo o derisione. Semplicemente perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre, in cui anch’io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un’altra».
«Leggendaria» n.107, settembre 2014