RENZO PARIS, IL MATTINO DI DOMANI – ELLIOT, ROMA 2017
Quanta voglia e rimpianto di vita, nell’ultimo volume di poesie di Renzo Paris (Celano, 1944). A cominciare dal titolo, così propositivo e aurorale (Il mattino di domani), per continuare poi nei temi affioranti in tutt’e quattro le sezioni scandite stagionalmente, che dalla primavera dell’infanzia arrivano alla «ridicola vecchiaia» dell’inverno. Sono ricordi, personali e collettivi: memorie familiari e sociali, percorsi di crescita culturale e politica. E sono paesaggi, istantanee folgoranti di città straniere o italiane (Mosca, Parigi, Marrakech, Helsinki, e l’amatissima Roma sempre più multietnica). Oppure amori, adolescenziali e maturi (la moglie Marina, amanti dimenticate o redivive, sconosciute esploratrici di Facebook); turbamenti sessuali e tentazioni trasgressive («Lolite di un attimo, ragazze curiose, / per favore, smettete di ricordarmi la vita», «Sono un conduttore erotico, / falotico. Vivo dell’altrui piacere. / Luttuoso, voluttuoso, paciere delle arrabbiate, / braciere delle / scostumate»). E ancora i “cari fantasmi” che emergono dalle brume di un passato lontano ma affettuosamente rivisitato, con un sentimento di nostalgica riconoscenza (il mondo contadino dell’Abruzzo nativo, la madre, le maestre, i compagni di scuola, la gente semplice del paese; e poi gli amici poeti che non vivono più…). Una sorta di rendiconto morale, di dettagliato inventario su guadagni e perdite dell’esistenza, che però lascia aperti vitalissimi spiragli di progettualità e joie de vivre, anche quando affronta la malinconia del tempo che passa, dello «stupore dell’ultimo tramonto», del distacco dalle persone e dalle cose amate: «Cara vita, che a poco a poco mi abbandoni», «Ho vissuto per ricordare e adesso // che la memoria si cancella, dove vado?».
Renzo Paris, prolifico romanziere, poeta e saggista – nonché traduttore, critico letterario e docente universitario -, non ha mai lesinato il suo impegno culturale e politico: sempre schierato a sinistra, a lungo collaboratore del Manifesto, di Liberazione e oggi del Venerdì di Repubblica, nei versi non dimentica le tragedie umanitarie contemporanee, la fame del terzo mondo, i profughi delle guerre mediorientali, il terrorismo, la disperazione degli ultimi a cui nulla può offrire riparo e consolazione: né la bellezza dell’arte e della natura, né – ovviamente – la poesia («la poesia / sarà pur sempre una cosa da ragazzi?».
Le composizioni di questa raccolta, tutte in terzine di vario metro, con rare indulgenze a rime, assonanze e calembour linguistici, sembrano ambire soprattutto a una chiara intenzionalità comunicativa, a una oggettività descrittiva che non lascia spazio a nebulose interpretazioni psicanalitiche: decise a rivendicare la propria prosaica adesione alla quotidianità dei gesti e dei sentimenti. Il loro autore continuamente ribadisce il suo ossessivo desiderio di partecipazione alla concretezza del reale, col timore che esso rimanga inappagato: «Nel mondo resto sempre a teatro», «Sono affollato di voci e di nessuna realtà». L’aggrapparsi tenacemente alle cose minime che osserva (insetti, uccelli, facce, parole di amore e amicizia) rimane allora il più solido ancoraggio per i mattini futuri.
«Nazione Indiana», 2 agosto 2017