FRANÇOIS MAURIAC, THÉRÈSE DESQUEYROUX – ADELPHI, MILANO, 2009
A Thérèse Desqueyroux, figura di donna esecrabile, ambigua e umanissima, François Mauriac (1885-1970, Premio Nobel nel 1952) dedicò non solo l’opera omonima del 1927, ma anche un secondo romanzo nel 1935, e due novelle successive, ossessionato dalla vicenda esistenziale e giuridica di lei, ispirata a un reale fatto di cronaca. Cattolicissimo fustigatore dei costumi corrotti della provincia francese – sedicente cristiana –, nascosti sotto coltri di perbenismo di facciata, di omertà e segreti inconfessabili (come in La farisea e in Groviglio di vipere), qui l’autore sembra parteggiare per la protagonista, rea confessa e mai pentita di un tentato uxoricidio. La sua antipatia è tutta indirizzata, infatti, al marito di lei, Bernard Desqueyroux, latifondista ottuso e volgare, interessato solo alla rendita fondiaria, alla caccia, al cibo e alla propria cagionevole salute di ipocondriaco.
“Il più preciso degli uomini, questo Bernard: classifica tutti i sentimenti, li isola, non coglie il groviglio di concatenazioni, di passaggi che li collega…Uno di quei campagnoli che fuori dal buco del loro paese sono ridicoli, e la cui vita non è utile a una causa, a un’idea, a una persona”. Un uomo metodico e controllato, che appartiene “alla razza dei ciechi, all’implacabile razza dei semplici”. Anche l’ambiente in cui si colloca la vicenda dei due coniugi appare da subito grigio e soffocante, immobile nella sua crudele indifferenza verso le persone che lo abitano:
“Angelouse è veramente ai confini del mondo… una frazione composta da un pugno di fattorie, senza chiesa, né municipio, né cimitero, disseminate intorno a un campo di segale… collegate da un’unica strada dissestata… in una serie di viottoli sabbiosi, dopodiché, fino all’oceano, non c’è altro, solo ottanta chilometri di paludi, lagune, pini sparuti e sterili distese dove, alla fine dell’inverno, le pecore hanno il colore della cenere”. Su questo sfondo opprimente si muove Thérèse, non bella ma affascinante, gelida creatura chiusa in un suo rancore di perpetuamente incompresa, costretta dal padre e dalla società a ingabbiarsi in un matrimonio da subito avvertito come una prigione, accerchiata dall’intera famiglia del marito, dalla servitù, dal paese bigotto e ignorante. Thérèse non sopporta Bernard, i suoi maldestri approcci sessuali, il suo russare, la sua conversazione poco brillante: rimane estranea e indifferente anche alla nascita della loro unica bambina, Marie, verso cui confessa di non provare alcun sentimento materno. I rari momenti di apertura nei confronti del prossimo si riducono a saltuarie frequentazioni con la giovane e ingenua cognata Anna, con un parroco rigido e poco classificabile, con un ragazzo tisico, intellettuale anticonformista che cerca vanamente di scuotere l’apatia di lei. A questo punto, il tentato avvelenamento del marito risulta a Thérèse l’unica via praticabile per uscire dalla sua prigione esistenziale: scoperta e processata, viene salvata dal carcere grazie alla testimonianza dello stesso Bernard, che la scagiona per salvare l’onorabilità della famiglia. Nonostante la libertà riottenuta, la protagonista dal piccolo viso “livido e inespressivo” patisce una ben più severa condanna da parte di tutto il cerchio domestico e sociale: isolata, offesa, umiliata da tutti, accetterà di venire allontanata da casa, trasferendosi a Parigi nel tentativo di uscire dal suo disadattamento caratteriale, confusa nell’anonimato della metropoli.
«Il Pickwick», 6 novembre 2017