CARLO LIBERTO, VANTAGGIO ALLA BATTUTA – PUNGITOPO, MARINA DI PATTI 1990
Gli aforismi sono, secondo il Dizionario Garzanti, «brevi massime enuncianti una regola pratica o una norma di saggezza». In quest’ultimo decennio la nostra cultura è stata invasa da volumi di massime che niente avevano a che vedere con l’oscurità densa di significato di un Eraclito, o con gli aculei universali di Marziale, o anche solo con la sapienza francescana di certi almanacchi. Sono stati soprattutto gli intellettuali più aristocratici e reazionari a inondarci delle loro meditazioni in briciole, onnicomprensive e onnigiudicanti, più presuntuose che profonde (penso a Ceronetti, a Cioran), accolte in genere dalla nostra stampa con trepidante ossequio anche quando si trattava di assolute banalità. Ma esistono anche aforismi che hanno la leggerezza di un refrain, l’incanto del gioco di parole riuscito, la spietatezza di un “a fondo” ben centrato: ce ne dà un esempio un riservato signore settantaseienne, che ha pubblicato da Pungitopo un libriccino prezioso di pensieri semiseri, di arguzie modestamente definite «battute». Carlo Liberto vive a Berna, ma è nato a Malta nel 1914, si è laureato a Roma in scienze politiche e ha intrapreso la carriera diplomatica che l’ha portato in Turchia e in Svizzera, praticando sempre la scrittura come passione personale e il giornalismo come impegno gratificante. Il suo ultimo volumetto ha un titolo preso in prestito dal tennis: Vantaggio alla battuta, a giustificazione di aforismi che si vogliono «privi di acredine» ma animati «dal gusto della trovata», giocati spesso sull’assonanza o sul modo di dire ironicamente rivisitato: «Partitocrazia: tessere o non tessere». «Gli arbitri: Soggetti ad alto fischio». «Faceva la corte alle tardone: lo chiamavano il nonnaiolo», «Denatalità: Ti ricordi le cicogne? Sono in cassa integrazione», «Dopo tante inutili prove, il figlio nacque in provetta», «Acqua inquinata? Niente paura. E’ stato emesso l’ordine di cottura». Sono illuminazioni pungenti, vivaci, che hanno qualcosa di allegro e incredibilmente giovane. Mi piace immaginare questo signore dai capelli bianchi che sorride sornione e beffardo davanti al conformismo e alla stupidità dilaganti, con l’esperienza dovuta ai suoi molti anni e la freschezza intatta di un carattere vivo: «Spinosa. Ammirava i socialisti / per il loro storico gesto / d’impugnare la rosa», «Palermo: la cosca d’oro», «Agli italiani piace molto la puntualità. Degli svizzeri». Le battute virtualmente cattive sono rare, e tanto più riuscite: «Solo perché incompresi / certi personaggi / si prendono per geni». Se non esiste acredine, l’amarezza è tuttavia uno dei sentimenti dominanti, anche se mai si riduce a sconforto; la potremmo definire pensosa disillusione, disincanto: «Più le macchine si fanno intelligenti / e più gli uomini diventano cretini”, “Questo nostro malessere / lo dobbiamo in gran parte / alla società del benessere»,
«La rassegnazione / è la maggior virtù dell’italiano. / Basta vederlo sull’autobus, / per non parlare del treno», «Benediceva l’insonnia: tanto fra non molto / avrebbe dormito per sempre». Termino con una delle massime che mi sono piaciute di più (ai lettori l’invito a cercarsene di migliori): «Ti ricordi quando gli inquilini / erano i vicini? / Ora sono lontani, e quanto! / Persino quelli della porta accanto».
«L’Arena», 18 ottobre 90